Fa’ salpare il tuo sogno, ficcaci dentro la tua scarpa.
Paul Celan
Dopo i laboratorio i partecipanti hanno condiviso il loro desiderio di dare un seguito all’esperienza. Alcuni hanno sottolineato l’utilità del teatro nella formazione degli psicoterapeuti e cousellor della Gestalt e hanno espresso il desiderio di far parte di un laboratorio permanente di Teatro del Testimone, che raccolga studenti dei diversi anni delle scuole di psicoterapia e di counselling della SGT. Più in generale, il laboratorio ha stimolato una riflessione su come i metodi dramma-terapeutici e in particolare il teatro autobiografico possono complementare gli attuali approcci della Scuola Gestalt Torino nella terapia individuale e di gruppo.
Conclusione: maschere del profondo
Tutto ciò che è profondo ama la maschera
Friedrich Nietzsche
Il laboratorio ha messo in evidenza il carattere paradossale e l’intrinseca ambiguità del teatro, che è ad un tempo spazio di finzione e di svelamento di profonde verità: un luogo per velarsi e per ri-velarsi, un luogo epifanico dove rivelare - a sé stessi e agli altri - verità sepolte sotto coltri di convenzioni incorporate e coperte dalle maschere delle norme sociali. La maschera del personaggio è apparsa come una via d’accesso alle verità più profonde di ciascuno. Il teatro non é quindi solo finzione, ma anche un momento per lasciar cadere le maschere che hanno da tempo aderito alla faccia, pietrificandola in poche prevedibili smorfie, ritenute necessarie per appartenere a un ordine sociale omologante. Tuttavia, la maschera è anche “personaggio” una creazione in parte distante dalla persona che lo rappresenta. Anche quando il partecipante recita sé stesso, si rappresenta in un passato recente che attualizza e simbolizza in scena. Lo spazio drammatico si configura quindi come spazio dicotomico, dove il soggetto agisce e allo stresso tempo si vede mentre agisce, e si vede mentre viene visito dal pubblico. Lo spazio drammatico diventa quindi anche un lungo plastico di rimodulazione dell’identità, uno spazio paradossale dove la fedeltà autobiografica e la trasfigurazione simbolica non si contraddicono, ma trovano un profondo intreccio sinergico. Questo processo evoca la frase di Teilhard de Chardin: “tutto ciò che sale converge”, dove il “salire” che in questo caso è il discendere nel profondo dell’esperienza umana e il “convergere” è riconoscere i tratti universali della ricerca di senso e riconoscimento di ogni persona. Questa esperienza di Teatro del Testimone ha mostrato la verità della frase di Carl Rogers: “ciò che è davvero personale è quasi certamente universale”: ha mostrato che alle sue radici, il sé di ciascuno è ramificato e intrecciato con altri sé. Il testimone che incarna qualcosa del suo lockdown in scena narra la sua esperienza da un punto di vista di una consapevolezza più vasta, transpersonale. Un punto di vista che nei tratti personalissimi e intimi dell’esperienza individuale ritrova l’universale della vita umana, della ricerca di un esserci nel mondo come soggetti dotati di senso in un mondo dotato di senso. Inabissandosi nel profondo del proprio sé si incontra la stessa profondità dell’altro, si incontrano i nodi che ci rendono uguali davanti la dolore, all’incertezza, ma anche accomunati dalla stessa ricerca di senso e bellezza. Per milioni di persone il lockdown è stato l’esperienza del collasso del loro sé individuale riflessa nel crollo del mondo come lo avevamo conosciuto. La pandemia ha significato per molti un’apocalisse individuale e collettiva, un frangente storico di perdita e ridefinizione di identità e legami. Per molti la pandemia è stata anche la fine del mondo, l’esperienza del finire di qualsiasi mondo possibile, che costituisce “il rischio radicale” e la fonte di “crisi della presenza” dell’individuo, come scrive de Martino. Questo sentire appartenerne a un’epoca che conduce non solo alla fine di “un” mondo, ma che contiene in sé il rischio della scomparsa di ogni mondo possibile, questo sentire di appartenere a un mondo dove il tramonto è l’unico orizzonte possibile emerge in molte narrative della pandemia. La domanda angosciosa di molti durante la pandemia riecheggia la domanda di de Martino: “è forse questo l’occaso di ogni altro possibile mondo? E c’è ancora del mondo al di là del suo cadere?” Questa “fine del mondo” è l’apocalisse del mondo noto, il crepuscolo degli idoli consueti e il luogo degli albori di divinità ignote, luogo di teofania, dove nuovi valori e modi di essere nel mondo attraversano un doloroso travaglio e vedono faticosamente la luce. Un apocalisse insomma, nel senso greco di “rivelazione” di altre forme possibili del sé. Non strade già tracciate, ma liquide rotte percorse sul mare dell’incertezza.
S-Confinamenti è stato un piccolissimo esperimento su un grande momento storico, un minuscolo granello di sabbia gettato negli ingranaggi dell’isolamento e della sofferenza mentale. È stato soprattutto un bagliore prima dell’alba di un nuovo inizio, dopo la pandemia; perché, come scrisse Heidegger: “la notte è la madre del giorno”.
Bibliografia
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