Ho cominciato ad applicare la tecnica
della Body Psycotherapy, che ho appreso attraverso un percorso di formazione
intrapreso negli anni ‘80 con George Downing, al quale sono molto grato per
avermi introdotto con tanta professionalità a questo metodo, integrandola nel
corso del tempo sempre più con l’approccio gestaltico da me principalmente
praticato e naturalmente con il mio stile personale. Infatti un punto
fondamentale nell’apprendimento è quello di imparare a “ masticare
” i concetti, le idee con cui si entra in contatto e buttarli giù
solo se risultano
convincenti e invece rigettarli se “ indigesti
”.
Bisogna dunque rendere proprie le cose che si dicono, sentire dal di dentro ciò
di cui si parla, sapere ciò che si dice prima di poter condividere, farsi risultare
intimamente la conoscenza con cui ci si trova ad avere a che fare per non
rimanere in una mera costruzione astratta. In questo modo, applicando questo
principio, ho adattato il modello che ho ricevuto alla mia esperienza e alla
mia particolare visione delle cose.
Nello sviluppo del mio atteggiamento terapeutico sono stato inoltre fortunatamente e felicemente influenzato dalle diverse teorie della relazione d’oggetto , sia da quella kleiniana orientata allo studio della natura del mondo oggettuale interno che, e soprattutto, da quella orientata all’intersoggettività, e qui mi riferisco a Fairbain che per primo sostenne che all’individuo interessa molto più l’ oggetto piuttosto che il piacere , o detto in altre parole, ciò che si desidera principalmente è la relazione e non un semplice scarico pulsionale. Successivamente Winnicott e Bowlby hanno ulteriormente elaborato questa posizione mettendo poi le basi della psicologia del Sé di Kohut del quale ho scelto di “ far mia ” l’importanza della posizione empatica che tanto l’avvicina all’esistenzialismo buberiano. Oggigiorno dopo molti anni di pratica con questo tipo di approccio posso dire di averne constatato una sicura efficacia ed è evidente che i lavori con il corpo attraverso l’apertura del respiro connessa con l’adeguata elaborazione del vissuto che ne emerge hanno un grande valore terapeutico.
A mio avviso come terapeuti e formatori la via maestra per sviluppare la propria efficacia è quella di allenare se stessi a convivere con la propria manifestazione emozionale stando in una posizione non giudicante, nell’ epochè di Husserl, sia in generale come pratica di vita che in modo particolare nelle sedute da noi svolte. Dico convivere con questa manifestazione e non risolvere perché non è realistico e certamente un po’ troppo “ grandioso ” pensare di non avere più problemi. D’altra parte lo scopo terapeutico non è certo che il paziente realizzi l’illuminazione ma piuttosto che riesca a comprendere la sua storia, come si sono formati i suoi disturbi e, cosa più importante, che riesca a sviluppare un atteggiamento di compassione e tenerezza nei confronti del suo essersi interrotto che incontra progressivamente nel corso del lavoro terapeutico. Questo atteggiamento può favorire potentemente la trascendenza dai suoi problemi, può aiutarlo a conviverci in modo più sereno e certamente gli permette di imparare a crescere con loro. Diceva Freud che la terapia finisce quando il paziente sente che ciò che prima gli sembrava insopportabile in realtà è sopportabile, per cui alla fine è proprio lo sviluppo dell’arte della risposta ( respons-ability ) piuttosto che l’eliminazione del sintomo ad essere fondamentale nella terapia.
PRIMA DI COMINCIARE
Nel lavoro con il corpo è necessario essere un po’ prudenti e basarsi su una precisa considerazione psicodiagnostica, come vedremo più avanti, prima di decidere se sia il caso per il paziente di entrare in contatto in modo molto diretto e forte con le sue emozioni.
Certamente sono opportune tre cose : primo che esista una solida alleanza terapeutica, secondo che il paziente abbia una certa familiarità con il proprio mondo interiore e infine che abbia un valido sistema di sostegno interpersonale . Se questi requisiti non sono soddisfatti, specie i primi due, allora può essere controindicato.
In generale, benché il lavoro con il corpo possa funzionare bene anche senza un “ oggetto ” specifico, un argomento particolare da trattare, in quanto il problema, se c’è, è già dentro il corpo, celato dietro allo schema corporeo, con il suo sistema di tensioni e contrazioni, io preferisco attualmente comunque cominciare con l’uso della parola. Aprire una piccola conversazione con lo scopo di esplorare la condizione del paziente riguardo alla sua esperienza dell’adesso migliora la relazione e favorisce un ingresso nel suo e nostro mondo interno in modo meno ruvido.
Si può quindi cominciare parlando per un po’ per poi, quando viene il momento, sviluppare la seduta con un lavoro di apertura del respiro allo scopo di contattare i vissuti emozionali della gestalt che va via via formandosi in primo piano.
IMPOSTAZIONE DELLA SEDUTA E TECNICA DI BASE
Riepilogo brevemente alcuni elementi tecnici e qualcosa sulla sequenza del processo corporeo in parte già descritta nel mio articolo precedente “ Principi della Body Psycotherapy ”1.
Si deve usare un materasso sufficiente ampio da permettere agevolmente una libera manifestazione di possibili movimenti delle braccia, delle gambe e della testa. Il terapeuta si siede di fianco avendo bene in fronte a se la zona pelvico - toracica del paziente. La testa non deve essere troppo vicina ad un muro o fuori dal materasso in quanto se dovessero esserci in seguito dei movimenti di una certa forza potrebbe essere pericoloso per il paziente. E’ bene inoltre prima di cominciare il lavoro chiedere al paziente di liberarsi di orologi, collane, grossi anelli, cinture, ecc. La posizione che
utilizzo più frequentemente per questo lavoro è quella distesa indicata a lato. Non è l’unica che si può usare ma è a mio avviso la più comoda sia per il paziente che per il terapeuta. E’ una stress position che viene dalla Bioenergetica di Lowen ed ha appunto la funzione di provocare una risposta emozionale come conseguenza del disagio che induce. Si piegano le ginocchia cercando di portare i piedi un po’ indietro verso il bacino e le braccia vanno messe lungo i fianchi. Questa posizione
permette che il respiro circoli liberamente e permette inoltre che avvengano più movimenti spontanei. Per esempio se si chiede al paziente di fare prima qualche movimento con le gambe alzate e poi con le gambe abbassate, si noterà inequivocabilmente che nel primo caso il movimento e più visibile e diffuso in tutto il corpo. Se durante la seduta il paziente volesse abbassare le gambe gli chiediamo prima di dirci i suoi motivi ed esploriamo se si tratta di questioni legate al corpo o al vissuto interno. In presenza per esempio di acuti dolori fisici derivati da fratture, operazioni o altre complicanze organiche si potrà trovare una qualche via di mezzo, ma negli altri casi gli diciamo che questo non è possibile e che se dovesse insistere nella richiesta bisognerà interrompere il lavoro con il corpo e si potrà comunque fare una seduta normale. Non si colpevolizza mai. In casi particolari quando i pazienti hanno una seria difficoltà nell’avere un qualunque tipo di contatto fisico si può lavorare con il corpo anche senza toccarlo usando la propria voce come fosse una mano, dando istruzioni verbali su come respirare e su ciò che si nota nel processo in atto.
1 S. Mazzei, “ Principi della Body Psycotherapy: tra terapia della Gestalt e teoria delle relazioni oggettuali “, Rivista “Qui e Ora” n. 1, Mazzei Editore, Cagliari,1992
Ad ogni modo quando tutte le premesse sono soddisfatte si può cominciare il lavoro e il processo corporeo si avvierà poi lavorando con l’apertura del respiro. In generale le tecniche che utilizzo principalmente sono:
1.Pressioni per favorire l'espirazione
2.Pressioni per favorire l'inspirazione
3.Lavori sulla muscolatura.
Si incomincia osservando dove è maggiormente evidente il respiro: si muove più il torace o la pancia? Alle volte non è facile notarlo specie quando il paziente è molto contratto e sembra immobile. Certo il movimento esiste ma è minimo. In quel caso si può chiedergli di fare prima qualche respiro profondo per poterne individuare il ritmo. Una volta individuato, utilizzando la prima tecnica, si appoggia, molto, molto delicatamente una mano nella zona ove il respiro è maggiore e si preme in modo leggero per favorire l’espirazione e così facendo si va avanti per un po’.
Successivamente si fa la stessa cosa con l’altra parte e infine dopo un po’ di tempo si lavora contemporaneamente a due mani. La pressione sull’addome va esercitata in verticale dall’alto al basso mentre quella sul torace si muove più in orizzontale con movimento laterale. Le mani si mettono a palmo (una o due mani) o anche a pugno. Dipende un po’ dalla circostanza. Spesso si può osservare che il paziente tiene la bocca con le labbra un po’ serrate come per tenere una tensione di controllo. In questo caso gli si chiede se può dischiuderle leggermente. In questo modo si potrà notare un immediato effetto di rilassamento.
In caso si notasse che il respiro è particolarmente bloccato o nell’addome o nel torace si può allora utilizzare la seconda tecnica bloccando l’inspirazione della parte che maggiormente respira. Se si fa così la zona contratta deve per forza di cose aprirsi al respiro sennò si soffoca. Questa seconda tecnica si fa solo due o tre volte e poi si ritorna con quella precedente per favorire l’espirazione.
La terza tecnica di lavoro sulla muscolatura è anche detta tecnica di rimodellamento ed ha la funzione di contribuire attraverso una comunicazione corporea
mediante l’uso delle mani del terapeuta sul paziente ad un rilassamento del suo tono muscolare. Si interviene sulle parti che appaiono particolarmente contratte e non necessariamente in termini di massaggio classico ma maggiormente con tonalità affettiva come trasmissione di presenza e attenzione. Questo tipo di lavoro può far accrescere la fiducia del paziente nel terapeuta e far emergere nuovi elementi dal processo corporeo.
FASI DEL
PROCESSO CORPOREO
Con questo modo di procedere, facendo pressioni sul torace e sull’addome del paziente e con l’applicazione di qualche tecnica di rimodellamento si apre il respiro e di conseguenza si modificano le sue tensioni muscolari, e questo da luogo anche alla modifica dello schema corporeo, in altre parole del suo modo fisico di stare nel mondo.
La conseguenza di ciò è che si passa generalmente attraverso 4 fasi di processo corporeo :
incubazione, tremori, emozioni , movimenti più ampi.
Fase dell’incubazione
In questo primo momento si stabilisce e si sviluppa una prima relazione verbale con il paziente. Si lavora all’apertura dei respiro e si dicono poche cose che hanno lo scopo di indurre il paziente al lasciarsi andare al processo e al prestare attenzione, in modo sempre più dettagliato e con maggiore presenza, a ciò che emerge. Per esempio si può dire: “ Non c’è niente che tu debba fare ora tranne che prestare attenzione a ciò che accade. Non modificare niente e respira come ti pare. Osserva la tua esperienza e tra un po’, se ti andrà, ti chiederò di parlarmene ”.
Per Downing in questo primo momento si va formando “ un mosaico di piccole sensazioni sparse ”, in altre parole non vi è ancora alcuna gestalt particolare che ha preso il primo piano, ma molte cose internamente tendono a convergere verso punti sempre più definiti.
La consapevolezza corporea è ancora vaga e solo dopo qualche tempo si possono manifestare sensazioni di intorpidimento delle mani, delle braccia o delle labbra oltre a sensazioni di caldo o di freddo come anche di disagio diffuso, ma può anche succedere che non accade nulla.
Alle volte ho raccolto dichiarazioni del tipo: “ Sto bene ”, “ Non sta succedendo niente di particolare ”, oppure “ Non sento nulla ”, ecc. In questi casi non insisto mai perchè sperimentino qualcosa di diverso ma al contrario uso quanto mi viene detto per esplorare maggiormente la caratteristica del paziente. Posso per esempio fare delle domande del tipo: “ Ok, stai semplicemente con questo nulla che sperimenti, ti è successo altre volte di non sentire nulla ?” Oppure: “ Come stai, come è la tua vita quando non senti nulla ?” O anche: “ … e se il non sentire nulla ti aiutasse ad evitare qualcosa, che cosa potrebbe essere? C’è qualcosa che ti viene in mente? ”.
Con i pazienti che dicono di non sentire niente si può fare l’errore di lasciar perdere il lavoro col il corpo e decidere di fare esclusivamente sedute verbali. La cosa da fare è invece ritornare al corpo nelle sedute successive e lavorarci un altro po’. Col tempo arriverà qualcos’altro. Non bisogna mai premere. Bisogna rassicurare il paziente e fargli sentire che è lui a decidere e non il terapeuta.
Il principio in generale è non rigettare mai la comunicazione come arriva ma semmai cercare di amplificarla. Si usano le dichiarazioni del paziente per scoprire il valore e il senso di quanto afferma nella sua vita, nel suo sistema difensivo. A cosa gli sono servite le sue risposte? La sua eventuale negazione o rimozione delle emozioni?
Anche se i pazienti spesso affermano di non sentire niente in realtà stanno succedendo molte cose. Peraltro è sempre importante tenere presente che il sistema difensivo non va “ svelato ” prematuramente. Le resistenze sono sacre ed è per loro che in passato come nel presente abbiamo potuto sopravvivere in un ambiente difficile. Mai aver troppa fretta e in generale è sempre meglio fare poco che troppo.
Nel lavoro con il corpo ci sono sempre molteplici livelli dell’esperienza. In superficie in questa fase ci possono essere solo delle semplici sensazioni ma più in profondità si stanno contattando cose molto antiche. Ad ogni modo per andare avanti si deve chiedere il permesso al paziente . E’ come un bussare prima di entrare in casa sua. E’ sia una questione di rispetto che rafforza la fiducia nella relazione che anche, cosa molto importante, una richiesta di assunzione di responsabilità . Si deve dunque chiedere: “ Ti va bene se andiamo avanti? ” e si deve insistere che il paziente senta per bene la sua risposta. Non va bene un semplice frettoloso annuire. Ci vuole un “ si ” ben detto per andare avanti. Quasi sempre il sì arriva anche perché il paziente si rende conto che ciò significa darsi una possibilità di superamento dei propri limiti e questo evidentemente ha spesso un fascino irresistibile.
Downing afferma che “ Il motivo per cui un muscolo rimane in stato di contrazione, è che il cervello continua, senza sosta, ad inviargli istruzioni in questo senso. Il respiro legge gli affetti. Gli affetti leggono il mondo ”2. Che il respiro legge gli affetti significa dunque che ne è condizionato.
2G. Downing, “ Il corpo e la parola ”, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1995
Gli affetti, ovvero le emozioni, producono continuamente alterazioni ed interruzioni nel normale ciclo respiratorio. Ricordo che anche Goodman, che era stato allievo di Lowen, aveva osservato delle corrispondenze tra disturbi del respiro e la funzione del Sé nel ciclo del contatto . Che gli affetti leggono il mondo significa naturalmente che queste emozioni sullo sfondo, che hanno alterato il ritmo respiratorio, hanno anche una loro precisa percezione delle cose del mondo, delle persone e delle situazioni, delle esperienze che hanno vissuto. Si potrebbe dire con il costruttivista Von Glasersfeld che i costrutti , cioè le nostre percezioni della realtà , si formano come adattamento dell’organismo all’ambiente quando questo è stato portatore di esperienze ben precise e definite. Non si tratta dunque di “ verità ” ciò che percepiamo del mondo, ma piuttosto di “ ricordi e vissuti ”, cioè rappresentazioni di relazione tra noi e il mondo interiorizzate e conseguenti delle nostre esperienze interpersonali originarie.
Fase dei tremori
Andando dunque avanti si arriva al secondo momento del processo corporeo che è quello dei “ tremori ” detto anche, in termini fisiologici, di “ fibrillazione ”. E’ un momento importante perché le emozioni si incominciano a presentare sullo sfondo. C’è un senso di pericolo, di minaccia che qualcosa di difficile, di inquietante sta per accadere. Letteralmente si incomincia a tremare nel sentire questi vissuti. Questa esperienza da una parte può far preoccupare un po’ il paziente ma dall’altra lo rende contento ed eccitato perché è segno “ che qualcosa sta succedendo ”.
La modificazione della respirazione produce un’alterazione del livello di ossigeno e questo ha anche un effetto inebriante a livello corticale producendo una sorta di stato alterato di coscienza. A mio avviso semplicemente si smette di “ non respirare ” e si sperimenta la propria reale potenzialità di percezione e di consapevolezza in modo non ostruito. Con il tremore il corpo si apre all’esperienza della propria dimensione interna.
Una prima considerazione è che se si trema significa che in qualche modo si è decisi di partire per l’avventura dell’esperienza. D’altra parte è proprio quando decidiamo di parlare che per esempio ci può tremare la voce e non quando abbiamo deciso di stare zitti e altrettanto ci possono tremare le gambe solo se siamo intenzionati ad affrontare una certa difficile situazione, come per esempio sostenere un esame o fare una dichiarazione d’amore o affrontare un nemico. In fondo, in un certo senso, il tremore è la conseguenza di un atto di coraggio, di una scelta di affrontare una questione difficile. Chi non osa non trema.
Un’altra importante considerazione sul tremore è che questo è l’effetto di una polarità in azione: c’è da una parte una forte spinta interna che va verso la liberazione dell’impulso che era rimasto bloccato nelle croniche tensioni corporee, nelle contrazioni muscolari che hanno formato lo schema corporeo: un impulso a esprimere qualcosa, che come vedremo più avanti, sono le antiche emozioni trattenute, e dall’altra parte, seppure inconsapevolmente, c’è una forte resistenza a farlo, ad esprimere i contenuti che emergono nella coscienza. C’è una grande paura.
In circostanze di questo tipo si può vedere in azione il doppio istinto di cui parlava Freud: l’ Eros , la vita, il cambiamento e il Thanatos , la morte, la rassegnazione passiva. I tremori sono in definitiva il risultato di questo impasse tra gli opposti.
Quando nel corso del lavoro con il corpo il paziente ci comunica l’esperienza dei tremori una possibilità è chiedergli se, nonostante questo, è disposto ad andare avanti. Se può sopportarli. Anche in questo caso la responsabilità di andare avanti è sua e pertanto è anche suo il merito del proprio coraggio. Io personalmente intervengo un po’ verbalmente per sostenerlo dicendogli per esempio che questo è l’effetto dell’avvicinarsi di emozioni difficili, che in passato sembravano insuperabili ma che nel presente le cose sono diverse e possono essere affrontate. Conto molto sull’alleanza terapeutica. Inoltre è anche buona cosa dire al paziente che in ogni momento può interrompere il lavoro e che cambiando semplicemente posizione, ovvero rimettendosi seduto, l’intero processo si può interrompere. Ciò gli può risuonare come “ antidoto al troppo per lui ”.
Da questo momento in poi si potrebbero manifestare le emozioni, che sono nel terzo stadio dell’esperienza corporea.
Confini dell’Io
Ci troviamo ai confini di ciò che l’Io del paziente è abituato a sostenere. Il tremore ne è l’espressione.
I principali confini dell’Io con cui più frequentemente ci si imbatte sono:
• Confini del corpo (qualche postura o qualche movimento può essere scomodo, fastidioso, doloroso e si tende pertanto a evitarlo. Il corpo non è abituato a sostenere questo nuovo modo di manifestarsi)
• Confini dei valori (si giudica adeguato o meno un certo comportamento, atteggiamento. Non sta bene essere arrabbiati, sessualmente eccitati, impauriti, ecc. Ci sono molte introiezioni su come si deve e non si deve essere)
• Confini della familiarità (ci si trova nello sconosciuto, non si sente di avere i piedi per terra. Non si ha familiarità a vivere questo tipo di esperienza. Si è come in viaggio verso l’ignoto e questo può far paura)
• Confini dell’espressione (non si è abituati ad esprimersi in certi modi, per esempio urlando, piangendo, ridendo, ecc. Anche in questo caso gioca un ruolo molto importante l’influenza dei vari tipi di resistenze al contatto e la propria abitudine di essere nel mondo)
• Confini dell’essere esposti (ci si sente al centro dell’attenzione e vulnerabili. C’è un senso di minaccia che sorge dalla proiezione sull’ambiente di giudizi negativi sulla propria condizione, su ciò che si sta vivendo, che devono essere stati già sperimentati in passato nel proprio contesto di appartenenza)
Fase delle emozioni
Quando non si ha esperienza del lavoro con il corpo non è cosi facile lavorare con le emozioni. Queste infatti potrebbero anche emergere potentemente e se non si è preparati ci si può sentire un po’ spaventati. Questo è normale.
Ci sono due ostacoli al lavoro. Il primo è a livello tecnico , che significa che non si sa bene come fare, come intervenire, se si deve parlare, se si deve stare zitti, se si deve stare più lontani o più vicini, se si continua con il respiro o si cambia argomento. Questo è un ostacolo che si supera normalmente nel tempo facendo esperienza .
Il secondo ostacolo invece, che è più problematico, è il livello del controtransfert del terapeuta. Qui si possono manifestare paure di ogni genere e in questo secondo caso è bene notare, prestare attenzione e comprendere cosa accade dentro di sé, quali sono le proprie paure catastrofiche sottostanti, in quali costellazioni personali si viene toccati da questo rapporto così intimo con il paziente. In che modo i suoi vissuti e le sue emozioni ci risuonano. Non bisogna avere paura di vedere il proprio scenario interno ma piuttosto bisogna farci l’abitudine e magari lavorarci sopra successivamente in supervisione. Col tempo ci si irrobustisce .
E’ regola generale che quando si manifestano le emozioni queste hanno sempre un oggetto intenzionale , ovvero sono in relazione a qualcuno e sono sempre connesse ad un contesto, a delle circostanze e situazioni realmente accadute nella vita del paziente. Per esempio se viene fuori la rabbia questa la si sperimenta sempre nei confronti di qualcuno e per qualcosa che ha fatto o non fatto. Noi, come terapeuti, dobbiamo fare del nostro meglio per aiutare il paziente a rendere dunque il più chiaro possibile sia l’oggetto che il contesto delle emozioni che sorgono.
Lo scopo del lavoro non è catartico, ovvero di liberazione della pulsione, dell’energia emozionale in esubero, ma piuttosto cognitivo. Si deve aiutare il paziente a raggiungere un insight affettivo, a capire cosa è successo, con chi è successo e in che modo ci si è posti davanti a questi fatti avvenuti nel passato. Lo si deve aiutare a rendersi conto e “ sentire bene dall’interno dell’esperienza ” la propria emozione osservando in che modo questa agisce nella sua vita e nel suo organismo, inteso come totalità del suo essere: corporeo, emozionale, mentale, spirituale. Inoltre parlandone ed entrandoci maggiormente in rapporto lo si aiuta ad apprendere ed usare, come diceva il titolo del bel
racconto di Marie Cardinal, “ le parole per dirlo ”3, cioè apprendere il modo per esprimere ciò di cui si è reso consapevole e che non ha mai detto. In questo modo può imparare a costruire un linguaggio per colmare queste antiche interruzioni e così, parlandone, le può unire ed integrare.
Ci son quattro emozioni principali , direi capofamiglia, che emergono dal lavoro terapeutico in generale che sono: la rabbia, la tristezza, la paura e il piacere . Naturalmente queste emozioni possono presentare un’infinità di sfumature. La rabbia per esempio si può esprimere come fastidio, dissenso, polemica, distanza, schifo, ecc. La tristezza può manifestarsi come nostalgia o malinconia, disinteresse, assenza, stanchezza, ecc. La paura come timidezza, esitazione, rinuncia, isolamento, silenzio. Il piacere può trovarsi nell’eccitazione, nell’allegria, nella risata, nella sfida, nella danza e nel movimento. E’ ovvio che ognuno ha i suoi guai e non c’è un’emozione che in generale può essere considerata più complicata da vivere. Ci sono persone che sanno arrabbiarsi facilmente e che magari sono addirittura sempre arrabbiate, altre che sono invece specialiste in tristezza cosi come altre che sono sempre lì con la loro paura a dire “ E’ meglio di no, ho paura, sarà per un’altra volta ”, e così via. E ovviamente ci sono anche i cultori di “ quanto è bella la vita ”, “ sii felice ”, “ è tutto così magnific o”, ecc., un po’ all’americana. In realtà quando queste emozioni non sono soltanto degli “ fitting games ” come li chiamava Perls, ovvero “ giochi di adattamento ”, e cioè i vari ruoli o personaggi che si possono recitare quali, per esempio, il duro, la vittima, il lamentoso, la brava bambina, il simpatico, ecc., quando invece sono emozioni reali, direi che nella mia esperienza ho osservato che le emozioni più facili, o forse per meglio dire meno problematiche nel lavoro con il corpo sono la rabbia e il piacere e poi un po’ più difficile è la tristezza e infine la paura è di gran lunga la più delicata da lavorarsi. Qui il livello di angoscia è molto forte. Con la paura si deve stare attenti. Alle volte non serve entrare e basta soltanto parlarne, almeno in una prima fase.
Prima di addentrarmi in modo più dettagliato sulla presentazione del lavoro con le emozioni che tratterò più avanti, mi sembra opportuno fare alcune considerazioni e precisazioni sulle premesse psicodiagnostiche che ho imparato a tener presenti prima di cominciare una seduta di Body Work.
QUALCHE CONSIDERAZIONE DIAGNOSTICA
Come ho detto prima di entrare dentro una emozione bisogna che il paziente abbia già sviluppato una qualche capacità di reggerla e gestirla e quindi appare doveroso fare delle valutazioni diagnostiche sull’opportunità di procedere. Il dolore è una cosa seria e va rispettato e il lavoro deve essere pertanto proporzionale alla forza dell’Io del paziente affinché non divenga distruttivo. Riepilogando, il terapeuta deve farsi tre domande per decidere come andare avanti:
1.Quanta forza dell’io possiede il paziente? Quanto di questa emozione può reggere?
Questa domanda va posta sia a livello individuale che di gruppo in caso si stia facendo la seduta in questo contesto. Nel gruppo ci si deve “ tarare sul più debole ” e bisogna quindi essere pronti a rispondere anche alle risonanze che si possono verificare come conseguenza del forte impatto del lavoro. Questa è una responsabilità del terapeuta. In generale è bene che i gruppi siano un po’ omogenei, cioè composti di persone che abbiano già una buona esperienza “emozionale” di base e non è terapeutico esagerare.
IO E SÉ
L'idea dell'Io è molto antica così quanto quella dello spirito o dell’anima. Da Socrate, che forse per primo identificò l’Io con la coscienza, sino ai più recenti “ cogito ergo sum ” di Cartesio e” io penso ” di Kant, pur naturalmente con molte autorevoli obiezioni in merito alla sua reale
3Marie Cardinal, “ Le parole per dirlo” , Bonpiani, Milano, 1976
esistenza (Plotino, Leibnitz, Hume, Schopenhauer, Nietzsche), e infine con Freud (che lo chiamava “ Ego ”) che lo inserì nella sua famosa seconda teoria topica della psiche costituita dall’ Io , dall’ Es , e dal Super-Io. In realtà Freud considerava l’Io come una realtà marginale, un elemento cosciente della psiche che aveva soltanto la funzione di essere il punto di incontro tra Es e Super-Io.
Dopo Freud il contributo decisamente più importante allo studio e sviluppo di questo concetto ci è venuto dalla “ psicologia dell'Io ” di Hartmann elaborata in America intorno agli anni ’40 che ha rappresentato un significativo cambiamento dalla precedente posizione freudiana di funzione prettamente difensiva dell'Io in una funzione specificamente adattativa. A cominciare da Hartmann l’ Io comincia ad essere considerato come una sorta di “ omuncolo ” all’interno di sé che funge da coordinatore nelle cosiddette funzioni primarie autonome . Esso è come un computer che fa da interfaccia o mediatore tra il mondo interno e quello esterno e quindi tra l’organismo e l’ambiente, ha una funzione di adattamento e di risposta ai conflitti ed è quindi un meccanismo di autoregolazione, è un organo che permette la percezione dell’oggetto, la regolazione affettiva, è capace di esame di realtà, di creatività, di interiorizzazione, di organizzazione e coordinamento nello spazio, di memoria e presiede alla facoltà di linguaggio. Un Io con queste caratteristiche era un po’ simile a quello che Kant chiamava “ Ego empirico ” contrapposto all’” Ego trascendente ”.
Inoltre l'ipotesi di Hartmann era che l’ Io si sarebbe potuto sviluppare qualora si fosse trovato in una circostanza sufficientemente libera da conflitti o, in altre parole, che se anche fosse stato soggetto ad una invasione da parte del conflitto, in presenza di un ambiente di appartenenza su cui potesse contare stabilmente non ne sarebbe comunque stato bloccato. Questa posizione che postulava l’importanza di un buon ambiente di origine nel quale l'organismo si potesse adattare e svilupparsi, era molto vicina a quella della successiva teoria delle relazioni oggettuali e quasi certamente il lavoro di Hartmann è stato di avvio a quello della psicologia del Sé di Kohut.
Come Hartmann anche i coniugi Blanck e Blanck nel loro libro “ Teoria e pratica della psicologia dell'Io” 4 hanno successivamente sottolineato come questo potesse essere reso più forte.
L'espressione “ teoria delle relazioni oggettuali ” è soprattutto associata al nome dell'analista inglese Fairbairn, che rivoluzionò l’opera di Freud e di Klein aggiungendo alla loro visione “ pulsionale ” la sua prospettiva “ relazionale ” detta appunto della relazione oggettuale. Come dicevo sopra, il terzo istinto , al di là della sopravvivenza e della riproduzione è quello alla relazione. Infatti, l’aspetto specifico della teoria delle relazioni oggettuali, come attualmente viene considerata, è appunto caratterizzato dallo spostamento dall'aspetto pulsionale a quello della relazione, che essa abbia o meno una natura primariamente pulsionale.
Questa prospettiva si sviluppò inizialmente in America con l'opera di Sullivan, di Mahler e di Kernberg mentre in Europa, e in modo molto diverso, crebbe grazie ai fondamentali contributi di Suttle, della stessa Klein, di Balint, di Guntrip, di Winnicott e di Bowlby.
Dopo qualche tempo i teorici della relazione d’oggetto cominciarono a parlare del “ Sé ”. Jacobson per prima scrisse un libro dal titolo “ Il sé e il mondo oggettuale ”5 ove affermava che l’Io non era il Sé in quanto il primo era una specie di manager mentre il secondo rappresentava l’intera persona compreso l’inconscio mentre per Hartmann l’ Es o Id (che costituisce l’inconscio) era contrapposto all’ Io . Il Sé quindi in questa nuova visione della struttura della psiche, esprime la
totalità dell’individuo. Anche nella psicologia del Sé di Kohut il Sé rappresenta la totalità (sebbene anche lui parlasse di Io nel suo primo libro ma successivamente parlò esclusivamente di Sé ). Se il primo rapporto con la madre è buono, affermava Kohut, allora ci sarà un Sé solido ma se è cattivo il Sé sarà fragile, frammentato e lo scopo della terapia sarà dunque quello di renderlo più solido.
Interscambiando quindi i concetti di Io e Sé in quanto equivalenti, almeno in questa circostanza, si può dire che si dovrà lavorare quindi per rendere l'Io più forte.
Kernberg parlò in senso più clinico di forza dell’Io come criterio diagnostico ed egli la metteva in relazione ad un particolare campo dell’esperienza interna e cioè al livello dell'ansia e alla conseguente capacità di gestire le emozioni. Avere forza dell’Io per Kernberg significava avere
4 G. Blanck e R. Blanck “ Teoria e pratica della psicologia dell'Io” 4 , Boringhieri, Torino,1978
5 E. Jacobson “ Il sé e il mondo oggettuale ” Ed. Martinelli, Firenze, 1998
una buona capacità di gestire l’ansia liberamente entro di sé senza esserne travolto. Significava avere la capacità di governare i propri impulsi come per esempio quando l'Io è in grado di dirigere e calibrare la rabbia senza farla esplodere come un fragoroso starnuto che schizza da tutte le parti. Una persona che ha poca forza dell'Io, ad esempio nel caso del disturbo borderline, deve continuamente esprimere la propria rabbia in quanto non ha una capacità di scegliere quanto, se e come dire le cose. Altrettanto si può dire riguardo alle altre emozioni ove la persona ne sia preda senza una capacità di porre loro un limite.
La prima valutazione è dunque rendersi conto se il paziente ha questa capacità. In caso comunque ci si trovasse in una situazione ove l’intensità cresce vorticosamente e il paziente sembra in seria difficoltà si può benissimo interrompere la seduta con una dichiarazione del tipo: “ Ho l’impressione che l’esperienza che tu stai vivendo sia molto forte. Credo che sia meglio per ora interrompere e magari parlare di quel che è successo in modo da poter integrare un po’. OK, ora ti chiedo di allungare le gambe e lentamente di rimetterti seduto ”.
Se poi il paziente avesse difficoltà a rimettersi seduto da solo lo si può aiutare sollevandolo gentilmente. Quando si modifica la posizione e si ritorna seduti la persona “rientra” velocemente al suo stato ordinario di coscienza.
2.Qual è la natura dei sintomi del paziente? Quali sono le sue difese?
E’ meglio non fare, almeno in fase iniziale, questo tipo di lavoro con pazienti molto disturbati come psicotici e borderline. Con i disturbi nevrotici in cui sono presenti le ordinarie resistenze al contatto in grado non eccessivamente severo, il lavoro può essere fatto tenendo comunque sempre presenti le altre considerazioni già espresse: alleanza terapeutica , familiarità con il proprio mondo interiore e valido sistema di sostegno interpersonale. Finché c’è solo un meccanismo di “ordinaria“ rimozione si può andare avanti. Il problema è se siamo di fronte a meccanismi caratteristici delle personalità molto disturbate, i cosiddetti meccanismi di difesa primitivi , come per esempio la “ idealizzazione ” eccessiva del tipo “ Ah, la mia famiglia è meravigliosa, mia padre è sempre buono e gentile, mia madre è la migliore delle mamme, ecc .” Con la sindrome da “ mulino bianco ” non si va avanti. C’è troppa paura di vedere i limiti del proprio contesto. Altrettanto accade con la “ scissione ” o “ dissociazione ” che ha lo scopo di salvaguardare i propri bisogni narcisistici. Non si vogliono riconoscere alcune parti del sé e dell’oggetto che sarebbero troppo inquietanti da integrare nella consapevolezza. Stesso problema in presenza della “ proiezione ” di tipo paranoide e dell’” ipersvalutazione ” che sono altri meccanismi di difesa primitivi la cui presenza eccessiva dà delle indicazioni di prudenza nell’applicare questo metodo.
Nel triangolo a lato, che è preso da un modello diagnostico delle teorie della relazione oggettuale, abbiamo principalmente due dimensioni di disturbo psichico: le persone normali che stanno nella parte superiore, nella zona nevrotica, e il versante della zona inferiore dove ci sono pazienti con un alto grado di disturbo e che spesso devono essere ospedalizzati. Nella parte tratteggiata ci sono i pazienti borderline che sono un po’ di qua e un po’ di là ma che continuano ad avere una certa capacità di autonomia e di consapevolezza. In questo triangolo sono descritti due versanti in cui può essere collocato l’individuo, quello narcisistico e quello psicotico.
I narcisisti hanno la caratteristica di “ non vedere l’altro ”. Lasciano che l'altro quasi scompaia fino al ben noto ritiro narcisistico . C’è la totale rinuncia alla relazione. Gli psicotici al contrario sono in uno stato di cronica connessione-interruzione . Sentono il contatto ma non lo reggono e dunque lo devono interrompere. Alcuni pazienti borderline
possono essere sia nel lato narcisistico che in quello psicotico. Questi disturbi hanno le loro radici nella risposta infantile alle carenze di relazione con la madre.
Nella visione kohutiana infatti il disturbo narcisistico si forma come reazione allo scarso riconoscimento da parte della madre alle giuste richieste di apprezzamento del bambino che, sentendosi respinto, ritira la sua richiesta e in qualche modo apprende a darsi il riconoscimento da solo. È’ come se dentro di se dicesse: ” Poiché fuori non c’è niente di buono, ora ritirerò il mio interesse dall’esterno e mi darò da solo il mio apprezzamento. Io sono interamente buono e fuori tutto è male! ”. Naturalmente questo è un esempio dei casi estremi. “ Uno scarso riconoscimento e soddisfazione dei bisogni di rispecchiamento e fusione del bambino, evidenziato dalle osservazioni di Kohut e precedentemente di Balint, producono la formazione del narcisismo patologico (sé grandioso) e/o dell’atteggiamento compiacente nella forma dell’idealizzazione dell’altro da sé
(imago parentale idealizzata) ”6.
Gli psicotici dell'estremità sinistra sono dotati di una grande sensibilità, al contrario dei narcisisti che ne sono totalmente sprovvisti, e sono in grado letteralmente di “ leggere nel pensiero ”. Sarebbero bravissimi nella tecnica del " doppiaggio ", perché sanno identificarsi perfettamente in ciò che può succedere dentro una persona, ma essendo troppo spaventati per stare in contatto con la propria interiorità devono interrompere continuamente il contatto con essa oltre che col mondo. Per fare una metafora, gli psicotici vedono l’altro come se guardassero con un cannocchiale e dunque questo risulta essere troppo vicino, al contrario i narcisisti vedono l’altro come se usassero un cannocchiale rovesciato ove l’immagine è lontanissima anche se si è a pochi centimetri di distanza.
3.Come vive questa persona? Quale è la situazione della sua relazione oggettuale?
Oltre alla relazione terapeutica, per quanto soddisfacente possa essere, è necessario tenere presente anche il contesto interpersonale con il quale e nel quale vive il paziente. Bisogna chiedersi se il paziente vive solo o in una famiglia e come è composta e come è il suo eventuale rapporto con i suoi membri. Se ha amici intimi o altre persone con cui parlare e condividere i propri vissuti, se ha qualche altro sistema di sostegno. Inoltre, ha un lavoro o delle attività che lo impegnano durante la giornata? Ha interessi, hobby, attività sportive, ecc.? Oltre a ciò si deve tenere anche presente la sua rappresentazione interna degli altri, di come li vive e di quanto egli stesso si permette di esprimersi. In caso per esempio uscisse da una seduta di Body Work con un grande senso di tristezza come potrebbe assorbirla nella sua vita quotidiana? Il contesto in cui vive è disponibile o in grado di contenerlo e sostenerlo in questa esperienza? E’ importante fare una sorta di “ proiezione esterna ” di come il paziente potrebbe affrontare e metabolizzare il proprio vissuto. Certo sarebbe difficile assorbire la propria tristezza vivendo in un ambiente degradato, violento, sporco e insensibile. Ovviamente bisogna un po’ prevedere queste cose per non correre il rischio che per esempio la tristezza diventi disperazione, la rabbia un impulso omicida e la paura un attacco di panico.
Io applico questo metodo frequentemente all’interno di gruppi di formazione o di psicoterapia stabili, anche se in una fase avanzata del lavoro, perché il gruppo stesso funziona da struttura di sostegno. Le persone si aiutano e si capiscono e questo è un ottimo sopporto. In alternativa quando lo pratico in sedute individuali offro la mia disponibilità ad essere contattato in caso di necessità anche fuori dalla seduta per esempio telefonicamente, allargando provvisoriamente ed esclusivamente per queste circostanze i confini della cornice terapeutica.
Fase dei movimenti più ampi
Portando avanti il lavoro con le emozioni si può giungere alla stadio successivo in cui il paziente, nella migliore delle ipotesi, avendo integrato un po’ della sua esperienza “ congelata ” nelle contrazioni corporee, sente di aver liberato qualche cosa nel corpo. C’è un respiro più ampio, un movimento delle gambe e delle braccia più libero, più armonioso. Una volta un paziente mi ha
6 S. Mazzei, “ Relazione di Oggetto: Contatto e Crescita”, Rivista “IN Formazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia” n.2 “Psiche e Teatro”,
I.G.F.s.r.l. Editore, Roma , 2003
riferito di sentirsi molto più alto, come se un grosso peso gli fosse cascato dalle spalle. Ci può essere anche un aumento del movimento, come un brio, una maggiore eccitazione corporea ma in modo più rilassato del solito. Si nota che si sono chiuse delle gestalt e il paziente può permettersi qualche sospiro di sollievo.
In generale trovo che le 4 fasi del processo corporeo appena descritte abbiano una notevole somiglianza con i 4 momenti del ciclo del contatto di cui si parla nella teoria gestaltica, cioè:
•fase dell’incubazione / Pre-contatto
•fase dei tremori / Presa di Contatto
•fase delle emozioni / Contatto pieno
•fase dei movimenti più ampi / Post-contatto – Ritiro
In realtà lavorare con il corpo significa individuare, elaborare ed integrare i cinogrammi che sono proprio delle gestalt aperte a memoria corporea e quindi, a ragion veduta, si tratta proprio dello stesso processo utilizzato con la psicoterapia gestaltica quando viene individuato e trattato un unfinish business , solo che si usa un altro metodo.
IL LAVORO CON LE EMOZIONI
La regressione
Una delle principali caratteristiche del Body Work è la sua particolare tendenza alla regressione. Naturalmente questa non avviene automaticamente e non sempre ma è frequente l’esperienza di contatto con fasi antiche della propria vita in quanto queste esperienze continuano ad essere “ ricordate ” più che dalla nostra memoria dai cinogrammi corporei. Quando si lavora all’apertura del respiro le contrazioni possono sciogliersi attraverso il processo corporeo e ciò può permettere di mostrare le ragioni per cui si sono instaurate. Come ho già detto lo schema corporeo di fatto è una strategia di sopravvivenza ad una realtà che non poteva essere altrimenti sopportata nel tempo in cui è accaduta. Magari si era molto piccoli e non c’era spazio né attenzione per i nostri bisogni e di conseguenza queste circostanze negative hanno richiesto un adattamento forzato. Durante la seduta, anche se il paziente dovesse parlare di eventi attuali, soventemente questi sono dunque in qualche modo connessi e certo in relazione con eventi precedenti in cui si è manifestata la gestalt significativa che ha originato il modello corporeo di risposta. Attraverso il lavoro terapeutico di esplorazione e di focalizzazione sugli elementi che emergono si possono ritrovare queste connessioni con l’infanzia e c’è la possibilità di risperimentare con grande intensità quelle stesse esperienze.
Si può risalire indietro nel tempo e risperimentare le esperienze vissute quando si sono formati gli Internal Working Models di Bowlby, cioè i modelli mentali del sé e delle persone significative del mondo circostante che determineranno poi la percezione e quindi il modo in cui si vivranno le esperienze. Si può comprendere dall’interno il senso delle “ rappresentazioni di esperienze interattive generalizzate ” di cui parla Stern secondo cui, poiché la natura della mente è diadica in quanto l'intrapsichico evolve insieme all'interpersonale e si basa fondamentalmente sullo scambio affettivo, le esperienze che si ripetono costantemente nella vita del bambino conducono quindi ad una specifica rappresentazione di sé e dell'oggetto . Questo è lo stesso concetto che troviamo anche in Kernberg che definisce unità sé-oggetto le relazioni oggettuali interiorizzate che rappresentano una immagine del Sé in relazione a una immagine dell'altro (oggetto) unite e “ colorate ” da un preciso stato emotivo. Ciò significa che successivamente nella nostra vita noi tendiamo a metterci in relazione con gli altri in base alle somiglianze o almeno a quelle che riteniamo tali delle persone con queste memorie degli oggetti dentro di noi e che tendiamo a rispondere a questi oggetti in modo simile a come abbiamo risposto in passato a quelli originari. Per esempio se qualcuno dovesse ricordarci nostro padre noi tenderemo a sentirci come bambini e a
vedere l’altro con le caratteristiche di nostro padre. Per Kernberg ci sono moltissime unità sé- oggetto che abbiamo interiorizzato e tutto ciò tende a deformare severamente la nostra percezione E’ bene comunque sottolineare che per Kernberg in queste relazioni oggettuali interiorizzate l’individuo “ ci mette del suo ” e cioè ci aggiunge anche suoi aspetti “ innati ”, pulsioni che provengono dall’ Es e che quindi non sono solo frutto del suo contesto. Allo stesso modo, tornando indietro nel tempo, si potranno anche risperimentare quelle circostanze avvenute quando sono state messe le premesse per la formazione del nostro carattere ( enneatipo ). C’è infatti anche la possibilità di regressione ulteriore ai primi due anni di vita 7 e rivivere i problemi che si sono manifestati attraverso i sei tipi di interazione pre-edipica di cui ha parlato la Mahler.
Infine non è rara l’esperienza del rivivere la propria nascita. Naturalmente tale vissuto non dovrà necessariamente corrispondere alla realtà degli eventi per come effettivamente sono accaduti poiché su questo punto al momento non può esserci alcuna certezza. Secondo me questa esperienza rifletterà piuttosto il modo in cui il paziente l’ha vissuta o meglio ancora il modo in cui la vive adesso dentro di sé. D’altra parte in questo lavoro più che mai bisogna abbandonare la pretesa dell’oggettività per abbracciare piuttosto il senso e il vissuto che il paziente ha o ha avuto di ciò che gli è accaduto in quanto solo passando attraverso il suo modo personale di vivere l’esperienza è possibile trovare una risposta e soluzione altrettanto personale alle sue difficoltà. Ad ogni modo è frequente che nello stato regressivo il paziente dichiari di sentirsi come un bambino piccolo o di rendersi conto solo del proprio viso e del collo, come fossero le uniche parti del suo corpo ad essere vive e presenti mentre il resto gli appare più sfocato e lontano. Di solito questa esperienza è in relazione al fatto che sta rivivendo un periodo preverbaIe della sua vita in cui era appunto solo occhi, bocca e collo mentre il resto non era ancora percepito e quindi non in primo piano. Quando lo stato regressivo è così arcaico ci si deve naturalmente sempre chiedere se è il caso di far entrare di più il paziente in questa condizione e quindi dovranno essere prese in considerazione le premesse psicodiagnostiche di cui ho parlato sopra. In generale la scelta dipende da quanto è fragile e spaventato nel momento del lavoro e a che punto è con la terapia. Se si pensa che il paziente sia in grado di tollerare questi forti sentimenti allora si entra di più nella gestalt che sta via via emergendo e lo si incoraggia a stare in questa condizione del sentirsi piccolo aiutandolo ad entrare e sentire maggiormente l’esperienza del corpo. Naturalmente lo si deve adeguatamente supportare decidendo in che modo rapportarsi con lui, se stare più vicino o più lontano, se parlare o stare in silenzio, affinché possa sentirsi al sicuro e protetto. In questa fase in sintesi si aiuta il paziente a:
1)Esplorazione del processo corporeo ed osservazione degli impulsi motori presenti. Si nota quali sono e cosa vuole succedere nel corpo.
2)Definizione del contesto e della circostanza che sono in relazione con il vissuto regressivo del paziente. Lo si aiuta a divenire più consapevole di ciò che gli sta accadendo intorno a sé nel suo mondo interpersonale nel tempo che sta rivivendo: “ Dove sei, chi c’è intorno a te, cosa sta succedendo?” , ecc.
3)Scoprire quale è il desiderio che ogni stato regressivo contiene e a volte quale è la minaccia poiché come ho detto gli stati regressivi possono essere sia positivi che negativi e in quest’ultimo caso il desiderio potrebbe appunto essere quello di voler protezione dalla minaccia stessa.
Quando si manifestano questi stati regressivi in generale significa che c’è qualcosa che si sta risolvendo, che si sta realizzando, una integrazione con alcuni eventi della infanzia che hanno creato un blocco, una interruzione nello sviluppo. E’ come se si riprendesse da dove ci si era interrotti, ovvero che il vecchio impulso alla crescita riprende a funzionare. Questa esperienza può comunque spesso mettere il paziente di fronte alla necessità di elaborare un qualche tipo di lutto di natura affettiva, egli si dovrà confrontare con la perdita di alcuni suoi sogni e aspettative sui suoi genitori o comunque su persone che sono state importanti nella sua infanzia. In genere questo processo di lutto comincia a un certo punto della terapia, spesso in una fase un po’ avanzata e dura
7 S. Mazzei, “ Principi della Body Psycotherapy: tra terapia della Gestalt e teoria delle relazioni oggettuali “, Rivista “Qui e Ora” n. 1, Mazzei Editore, Cagliari,1992
qualche tempo. E’ un fatto positivo anche se quando si manifesta si possono sperimentare sentimenti abbastanza difficili quali senso di vuoto, tristezza e rabbia. Il paziente può anche avere la sensazione di trovarsi come all’interno di un lungo ed oscuro tunnel, in una condizione di transizione, con la paura che questa condizione non finirà mai, che non ne uscirà più e che quindi potrebbe durare per sempre. In questa fase bisogna confortarlo alla luce della propria esperienza rassicurandolo che col tempo anche questa esperienza verrà superata. Lo si esorta però a stare con il suo sentimento di lutto e di perdita almeno per qualche tempo e a fare del suo meglio per essere in questo frangente particolarmente buono con se stesso. Non bisogna dare dei messaggi del tipo " devi stare bene " o " devi essere vitale " o “ reagisci ” ecc., ma piuttosto “ stai con il tuo dolore ”, “ lascia che ci sia per lui un piccolo spazio dentro di te ”, “ permettilo ”, ecc. Lo si incoraggia inoltre a trovare un proprio rituale, un proprio modo per affrontare questo passaggio e lo si invita a considerare questa esperienza come temporanea oltre che straordinaria per il suo sviluppo.
In questa fase possono emergere mille ricordi, speranze legate alle proprie aspettative che i genitori “ alla fine cambieranno” , che “ si renderanno finalmente conto ”, “ che alla fine capiranno ”, ecc. Molte illusioni vengono rivissute e abbandonate. Come risultato di questa esperienza si potrà comprendere ciò che è accaduto nella propria vita in relazione al rapporto con i propri genitori, si sentiranno le vecchie emozioni legate a queste esperienze e infine si arriverà a un lasciarli andare, a separarsi da loro interiormente e a dare un profondo addio, a chiudere con quel periodo dell’infanzia. Questo potrà poi permettere alla persona di sentirsi finalmente libera dal proprio carico di sentimenti sospesi e cristallizzati nel suo passato. E’ un po’ come dire “ addio mamma ”, “ addio papà ”, “ ora sono grande e vado da solo ”. Lo si dovrà fare da qualche parte dentro di sé.
Più avanti nella terapia si potrà compiere un passo ulteriore e lavorare alla possibilità di perdonare i propri genitori per le loro mancanze avendo una comprensione più profonda degli eventi, comprendendoli maggiormente come esseri umani con i propri limiti, ma a questo ci si dovrà arrivare senza incoraggiamenti né forzature. Dovrà accadere naturalmente.
Sulla relazione
Quando si lavora per aiutare il paziente nella regressione ad eventi antichi è fondamentale essere in una buona relazione. Come si dice, il paziente deve avere un transfert positivo nei confronti del terapeuta come del resto il terapeuta deve avere un controtransfert altrettanto positivo nei confronti del paziente. Se c’è un buon transfert/controtransfert allora si può lavorare.
La ricerca psicoanalitica recentemente ha sottolineato l’importanza dell’identificazione reciproca nel rapporto terapeutico. La Kainer sostiene che “ l’analizzando deve riuscire a identificarsi con qualche aspetto dell’analista, e lo stesso deve poter fare l’analista rispetto all’analizzando ”8. Questo tipo di sintonia è detta “ empatia immaginativa ” che quando percepita durante la seduta dal paziente può essere di grande giovamento alla cura se non la cura stessa.
Il concetto di “ oggetto trasformativo ” trae origine dagli studi di Bion e più recentemente di Bollas ed è anche ben espresso nell’esperienza della “ interiorizzazione trasmutante ” di Kohut secondo cui il terapeuta può essere di aiuto al paziente solo a condizione che esista una ben definita alleanza terapeutica tra di loro e che il paziente possa sentirsi di valore e importante per il suo terapeuta tale da poterlo interiorizzare come appunto un “ oggetto trasformativo ” esterno attraverso la cui “ interiorizzazione ” (di oggetto buono) entro di sé egli possa cambiare ( trasmutare ). Il paziente deve dunque sentirsi al sicuro oltre che compreso e contenuto durante il proprio processo di esplorazione regressiva.
Naturalmente se la circostanza o la relazione in qualche momento del processo terapeutico dovessero risultare particolarmente difficili è sempre opportuno parlarne con frasi del tipo:” Ho l’impressione che ci siano delle difficoltà. C’è qualche problema con me? Se è così allora ti chiedo per favore di parlarne ”. Qualora questa esplorazione ed eventuale chiarimento funzionassero allora si può andare avanti altrimenti è meglio aspettare un momento migliore.
8 R. K. Kainer , “Il crollo del sé e la sua ricostruzione in terapia”, Astrolabio, Roma, 2000
Tecniche specifiche
Ho già riferito nel mio precedente scritto sui “ passi di transizione ”, che sono quelle tecniche particolari, valide a mio avviso sia nel lavoro con il corpo che nelle sedute gestaltiche ad orientamento più verbale, per esplorare e contestualizzare i processi psicologici in atto durante la seduta. Si applicano in base alle circostanze in quanto per qualcuno può essere preferibile l’una piuttosto che l’altra come possono anche essere utilizzate tutte quante. Le riassumo qui brevemente:
• Parole
• Immagini
• Gesti o movimenti
• Suoni
Quando durante le fasi del processo corporeo cominciano a manifestarsi delle emozioni, non sempre il paziente le riconosce ed è per questo che è necessario aiutarlo a metterle più a fuoco.
•Lo si può aiutare chiedendogli di “ parlare ” di ciò che sperimenta lasciandosi andare a qualunque idea o associazione gli venga in mente: “ Cosa sta accadendo? Ti va di parlarne?”
•Un secondo strumento è chiedergli di farsi venire un’immagine in mente che possa in qualche modo rappresentare il suo stato. Una sorta di metafora. Per esempio: “ E se ti venisse un’immagine in mente che potesse rappresentare come stai, che immagine sarebbe? ”. Alcune risposte potrebbero essere: “ mi sento come un lupo ” o “ sono davanti a un muro” o “dentro una cassa ”, “ vedo una giostra ” o “ sto cadendo in un abisso ”, ecc. Oppure dando un altro significato all’immagine gli si potrebbe dire: ” Stai in contatto con ciò che stai sperimentando e osserva se ti viene in mente un’immagine di una situazione, di dove e in che tempo della tua vita potresti trovarti… magari in un luogo o con qualcuno in particolare ”. In questo caso magari potrebbe dire per esempio che vede la cucina di casa sua, o la sua stanza, o la scuola, e cosi via.
•Oppure allo stesso modo, con lo scopo di aiutarlo a chiarire il proprio processo in atto, gli si può chiedere di esprimere la sua condizione con un qualche gesto o movimento che possa rappresentare la sua esperienza, ad esempio potrà essere un calcio, una spinta, un raggomitolarsi, un battere, un fare uno sberleffo, ecc.
•Infine: “ Emetti un suono e lascia che si sviluppi per un po’ ”, dicendogli comunque che può liberamente sceglierne il tono, volume, intensità, ecc. e quindi potrà essere un urlo come un mormorio o un sibilare o un dire uffa, ecc.
Tutti questi “ passi di transizione ” vanno poi naturalmente contestualizzati. Le parole, le immagini, i gesti e i suoni si riferiscono certamente a qualcosa e a qualcuno e sono proprio i loro oggetti che si devono trovare ed elaborare.
Durante le fasi regressive uso frequentemente la classica tecnica dell’identificazione gestaltica, ovvero chiedo al paziente di essere quel bambino o bambina che sono stati cosi come l’immagine, il gesto o il suono che hanno espresso e dall’interno della esperienza che stanno vivendo di descrivermi il proprio vissuto e il contesto nel quale erano immersi.
Altrettanto importante allo scopo di risperimentare bene quei momenti trovo la tecnica di “ immersione ” che viene dallo psicoanalista ed esistenzialista svizzero Medard Boss. Si tratta di fare domande al paziente su particolari e dettagli della sua visione: “ Quanti anni hai? Come sei vestito? Dove ti trovi? Sei in una casa, in una stanza? Sei in piedi o seduto? Cosa c’è intorno a te? Ci sono persone? Animali? Oggetti particolari? Ci sono odori? Suoni?, ecc.”. Oltre alla descrizione del contesto chiedo anche di riferire ciò che sperimenta davanti a tutto questo dopodiché procedo con il dialogo immaginario tra il paziente nel tempo della regressione e i diversi “ oggetti ” della sua visione: “ Immagina di trovarti di fronte a tua madre, giovane, al tempo della tua infanzia e di dirle ciò che stai sperimentando ”. Altrettanto si farà con il padre, i fratelli e tutti i personaggi che al paziente e al terapeuta sembrano risultare importanti in quel momento. Si porta poi avanti il dialogo tra il paziente e il suo oggetto. Naturalmente è un po’ difficile lavorare in questo modo con pazienti
che hanno tendenze all’acting-out. In questo caso si potrà solamente esplorarne la situazione e cercare di ricostruire insieme il significato di quell’esperienza. Se il paziente fosse in ansia o in panico non è necessariamente detto che non si possa lavorare col corpo. Si può fare comunque ma bisogna trovare un modo che vada bene per lui ed è sempre meglio che sia lui a decidere. Gli si chiede quindi il permesso di andare avanti. Qualora invece lo stato di panico fosse difficilmente sostenibile allora si può anche interrompere ma è importante dare un messaggio sia verbale che non verbale come se non si trattasse di una cosa troppo grave. Si può dire per esempio:” Credo che vada bene interrompere adesso. Hai preso contatto con una esperienza molto forte e forse è meglio affrontarla a più riprese, ora magari ne parliamo per un po’ e poi, se vorrai, ci ritorneremmo la prossima volta ” . In questo modo il paziente può avere la sensazione che l’esperienza sarà prima o poi superabile e non sentirà il fallimento.
In generale bisogna sempre sostenere il paziente sul suo valore dell’aver avuto il coraggio di fare l’esperienza. Va bene concludere le sedute con frasi del tipo:” Credo che tu abbia fatto un ottimo lavoro ”. D’altra parte in fondo questo è sempre vero perché ognuno va fin dove può! Inoltre bisogna sapere che ci sono dei giorni in cui si riesce ad entrare nelle cose e dei giorni in cui non si va avanti, come sempre nella vita. E’ bene inoltre tenere presente che quando in regressione si torna al passato si possono trovare sia esperienze negative che anche positive ed è importante sapere sostenere anche queste senza squalificarle in quanto magari non sono abbastanza “ drammatiche” . Comunque, è ben auspicabile che si riesca a ritrovare la vecchia strada ove ci si è interrotti perché in quel tempo non era possibile percorrerla. L’ipotesi teorica dell’intero processo è di andare al punto di interruzione ed esprimere i sentimenti che lo hanno bloccato. Si torna indietro e si cerca di fare qualcosa di meglio. Questa posizione corrisponde al concetto di “ nuovo inizio ” dello psicoanalista ungherese Balint. Lavorando con il corpo queste cose possono succedere.
Il doppiaggio ( dubbing ) è una tecnica che viene dallo psicodramma di Moreno e può essere molto utile per aiutare il paziente ad esprimere i suoi vissuti qualora si trovasse particolarmente bloccato o in difficoltà espressiva. Il terapeuta parla al suo posto agli oggetti a cui si riferisce l’emozione che il paziente vive esprimendo ciò che il terapeuta crede che non osi dire. Si sta un po' più indietro del paziente mentre questo, nella sua posizione distesa, guarda di fronte a sé immaginando che ci sia la persona a cui si parla. Il doppiaggio si fa soltanto dalla parte del paziente e non dalla parte della sua immagine, a parte qualche circostanza particolare in cui si crede che possa essere utile altrimenti. E’ molto importante durante questa esperienza osservare i segnali non verbali del paziente e come sembra reagire alle nostre dichiarazioni. Eventualmente si dovessero notare delle contraddizioni nel suo comportamento è importante indicarle. Quando il terapeuta doppia il paziente nei confronti dell’oggetto della sua immaginazione, il paziente non deve ripetere le sue parole, anche se può farlo qualora volesse, ma piuttosto deve dire se gli va bene o meno quanto è stato detto. In generale si deve cercare di usare frasi brevi e semplici nei limiti del possibile e sempre verificare se il paziente è d’accordo. Se il doppiaggio non fosse corretto per il paziente il risultato terapeutico sarebbe comunque positivo poiché il paziente avrebbe la possibilità di modificare la comunicazione correggendo il doppiaggio e in definitiva chiarendo a se stesso la natura della dinamica. Può essere utile per il terapeuta, mentre fa il doppiaggio, se cerca di identificarsi il meglio possibile con il paziente, magari anche imitando il modo in cui si siede e respirando come lui per cercare di captare la sua condizione.
Oltre a queste tecniche finora descritte ne utilizzo numerose altre che prendo dalla mia esperienza gestaltica e che ovviamente applico in base alla circostanza.
Tra le più frequenti ci sono:
Il continuum di consapevolezza, che utilizzo in modo particolare quando sembra che il processo stia attraversando un momento di impasse , in questo caso posso chiedere al paziente di fare una specie di cronaca in diretta di ciò che gli sta accadendo, cioè cosa avviene momento per momento nel suo corpo, nelle emozioni e nei suoi pensieri.
Quando magari è in contatto con una particolare difficoltà, con un sintomo che non riesce a sentire bene, a definire chiaramente, posso applicare la tecnica della esagerazione del sintomo
chiedendogli quindi di aumentare più che può per esempio il fastidio, la tensione o la tristezza che sperimenta quasi con una smorfia, in una caricatura esagerata e di stare un po’ con questa esperienza per conoscerne meglio la forma dopodiché gli chiedo di rilassarsi nuovamente e di descrivermi ciò che ha vissuto.
Un’altra tecnica ben conosciuta è quella del “ parlare a … piuttosto che parlare di …” , in altre parole quando per esempio il paziente ha qualcosa da dire sulle persone con cui è o è stato in relazione, piuttosto che “ parlarmi di loro ” gli chiedo di “ parlare a loro ” immaginandoli come se fossero di fronte a sé.
In molte altre circostanze il paziente può aver inoltre bisogno di un piccolo aiuto per divenire meglio consapevole delle sue dinamiche intrapsichiche o interpersonali, di una sorta di trampolino di lancio per l’espressione ed alcune possibili ispirazioni possono venire dal completamento di particolari frasi di cui sotto metto un esteso elenco che proviene dalla letteratura gestaltica:
•sono consapevole di ...
•sto provando …
•sto evitando di …
•sto evitando di rendermi conto che ...
•sto cercando di darti l’impressione che …
•rifiuto di sentire …
•ciò che voglio da te e’ …
•ho voglia di …
•io non voglio …
•ti controllo con ...
•ciò che non sto dicendoti ora e’ …
•io pretendo …
•io rifiuto di …
•non sopporto che ...
•se prendessi un rischio con te io …
•per farti piacere io …
•cerco di piacerti con ...
•mi sento eccitato/a dal tuo …
•ho paura che tu pensi che io …
•mi piacerebbe darti …
•se ti dicessi ciò che sto sentendo ora …
•il gioco che sto giocando ora e’ …
•se agissi d’ impulso proprio ora …
•sto sabotando la nostra relazione con …
•e’ ovvio per me che …
•se fossi onesto con te proprio ora ti direi che ...
•se diventassi pazzo proprio ora io …
•ti do il permesso di …
•proprio ora io …
•mi piacerebbe che tu …
•proprio ora ho paura che …
•se mi arrabbiassi con te …
•non …
•non posso scioccarti con …
•voglio dirti …
•se io ti toccassi …
•mi aspetto che tu …
•cerco di piacerti con …
•ti tengo distante da me con …
•vorrei che tu mi conoscessi se …
•le mie aspettative per i prossimi minuti sono …
•io rifiuto di guardare in faccia …
•ho paura che ...
•se mi lasciassi andare io ...
•ce l’ho con ...
•mi trattengo dal ...
•non voglio renderti partecipe del mio, la mia ...
•ho paura che tu pensi che io ...
•non mi permetto di ...
•voglio dirti che ...
Naturalmente vi sono molte altre possibili frasi che possono essere usate nelle diverse circostanze e sta al terapeuta la decisione di utilizzarle in base alla sua percezione del paziente e della sua situazione.
Quando si lavora in contesto di gruppo può inoltre rivelarsi preziosa la possibilità di proporre al paziente, al termine della sua seduta di Body Work, di sperimentare diversi tipi di possibili interazioni con il gruppo allo scopo di integrare vissuti e risoluzioni emerse nella sua seduta.
TECNICHE CORPOREE SPECIFICHE DI LAVORO CON LE EMOZIONI
Il lavoro con la rabbia
La rabbia è una risposta istintiva alla frustrazione dei bisogni. La sua pulsione implicita, come peraltro è evidentemente espresso nel senso della parola sanscrita " rabbahs " da cui sembra trarre origine, è quella di "fare violenza", che è una tipica reazione del mondo umano e animale quando si subisce o si crede di aver subito un qualche tipo di torto, offesa o aggressione sia fisica che psicologica. Come conseguenza di ciò si può sperimentare e manifestare la voglia di distruggere, punire, graffiare, mordere, prendere a pugni o a calci, fare a pezzi l’oggetto da cui si è ricevuto il torto. Nel mondo animale la rabbia è funzionale alla sopravvivenza perché fornisce quella carica necessaria per difendersi dagli attacchi e dalle aggressioni come anche per avere maggiori possibilità di accoppiamento oltre che per difendere il proprio territorio e la propria prole. Nel bambino invece la rabbia ha piuttosto la funzione di comunicare alla madre uno stato di disagio con l’implicita richiesta che essa ne trovi un rimedio e sovente esprime la frustrazione di bisogni connessi con l'immagine e la realizzazione di sé quali di riconoscimento, rispecchiamento e rassicurazione . E’ un atto di autoaffermazione. Naturalmente questo non significa che la madre o il padre devono necessariamente provvedere a tutti i bisogni che sorgono nel bambino. E’ ovvio che i genitori hanno tutti i diritti di essere a loro volta limitati e di avere essi stessi rabbie o paure di cui sono più o meno consapevoli. Il concetto di madre “ good enough ” di Winnicott a mio avviso esprime bene il fatto che per crescere abbastanza sereni bisogna partire da una base sufficientemente solida e stabile ( costanza dell’oggetto ). La madre può e deve senz’altro aiutare il bambino a sopravvivere nutrendolo, avendo cura della sua salute, dandogli protezione e affetto ma non può certo risolvergli tutti i suoi problemi esistenziali. Nel crescere ci potranno essere e sicuramente ci saranno inevitabilmente delle aree della sua sensibilità che saranno frustrate nelle aspettative. L’individuo è sempre sospeso tra “ essere ” e “ divenire ”. Nell’essere il “ divenire ”, come anelito verso una condizione idealizzata di totale perfezione e benessere, è in potenza ma le azioni e gli atteggiamenti, affinché questo si realizzi, vanno inevitabilmente portati avanti e sviluppati da
soli quando anche i genitori siano stati mancanti di capacità. Non si può certo scaricare tutta la responsabilità di irrealizzazione delle nostre esistenze sulle mancanze genitoriali ma bisogna piuttosto essere disposti a costruirsi ciò di cui si ha bisogno da soli e magari andare più in là del punto limite dei propri genitori.
D’altra parte prima di realizzare una condizione di “ indipendenza ” si deve partire dalla originaria condizione di “ dipendenza ” ove è principalmente collocata la radice dell’emozione rabbiosa tenendo conto che questa non va “giudicata” ma piuttosto va compresa nella sua relatività. Si deve aiutare il paziente a comprendere le ragioni della sua “tendenza” a rispondere con rabbia a certe situazioni, l’origine del suo disagio. Con il Body Work, durante il processo regressivo possiamo spesso trovare questa radice della rabbia nei primi rapporti interpersonali con le prime figure di attaccamento ed è molto importante lavorare con queste gestalt aperte in modo particolarmente empatico mettendosi appunto dal punto di vista di un piccolo esserino dipendente in tutto e per tutto . E’ importante saper “ rispecchiare ” il paziente e questo non significa naturalmente riempirlo di stucchevoli cure materne. Come ci tiene a precisare Kohut: “ Il significato del rispecchiamento, l’essenza di questo concetto, non è che bisogna fingere con il proprio paziente, lodarlo e rispondergli e dire che è meraviglioso. E’ una cosa priva di senso. Bisogna invece mostrargli ripetutamente come egli si ritragga in modo difensivo perché prevede di non
ottenere ciò che desidera e non osa permettere a se stesso di sapere cosa desidera“. 9
Prima di arrivare al perdono e alla comprensione dei propri genitori bisogna passare dalla violenza e dalla ferocia che può essere stata vissuta nei loro confronti. La rimozione e la razionalizzazione non hanno mai risolto veramente il problema della rabbia.
Ci sono peraltro molte manifestazioni della rabbia e quando questa è molto intensa, come nel caso degli impulsi omicidi, è necessario rendersi conto se il paziente non ne è eccessivamente spaventato e se è in grado di sostenerli, altrimenti è meglio lavorare con una intensità minore. E’ anche importante aiutarli a rendersi conto che questi impulsi rappresentano solo una parte di sé e che vi sono anche altri aspetti che non vogliono attuarli. In questo caso si può anche fare al posto del Body Work una seduta gestaltica con tre sedie (una arrabbiata razionale e richiedente , una arrabbiata omicida e il padre o la madre, ecc. Spesso è presente una polarità del tipo: " Una parte di me vuole ucciderti e un’altra parte vuole che tu capisca ciò che mi hai fatto …” e possono esserci delle richieste : “Non accetto che tu … smettila di … basta con… ecc. ”
La rabbia quindi va accettata e per prima cosa ne va ricercato l’oggetto e il contesto di appartenenza. Una volta individuato si chiede al paziente di cominciare a parlare direttamente verso chi sente la rabbia e di immaginarselo davanti a sé e dire poi ciò che ha da dire. Ci possono essere frasi del tipo: ” Smettila … vai via … lasciami in pace … basta … uffa … stai più lontano… no, no, no… ”. In tutti questi casi si può decidere anche di praticare una attività motoria complementare dopo aver naturalmente chiesto il suo permesso. Per esempio se il paziente spinge in su con
le sue mani si può chiedergli se vuole una resistenza alla sua spinta. Se accetta si può premere con una certa forza, adeguata alla sua capacità di reazione. In qualche modo si deve trovare una misura di pressione/opposizione che il paziente sia in grado di respingere. Può anche essere utile farsi dire delle frasi che l’oggetto persecutorio gli potrebbe o avrebbe potuto dire, del tipo: “ Non vai bene … sbagli sempre … smettila … ” e ripetergliele con un tono di voce adeguato mentre si spinge. Lo si aiuta a lasciare uscire tutti i diversi sentimenti e alle volte può essere molto intenso specie nella fase di mezzo. Oltre che sulle mani è possibile con la stessa modalità premere sui piedi invitandolo a spingere.
9H. Kohut, “Lezioni di tecnica Psicoanalitica. Le conferenze dell'Istituto di Chicago”, Astrolabio, Roma, 1997
Se si è abbastanza forti e robusti il paziente può anche stringere il polso del terapeuta per comunicare la sua determinazione ma è meglio evitarlo se l’intensità dell’emozione è alta. Ricordo che quando Perls offrì a un paziente molto arrabbiato il suo polso per manifestare la pulsione della sua rabbia questi gli rispose che avrebbe anche potuto spezzarglielo, al che Perls, molto saggiamente, disse che forse in quel caso era meglio usare un cuscino. Quindi se per esempio il paziente volesse colpire anche con violenza si può
usare un cuscino e al limite anche un altro materasso per calciare. In caso volesse invece strozzare o strangolare può andare bene un asciugamano che il paziente potrà stringere e mordere a suo piacimento.
Naturalmente il paziente potrà anche esprimere la sua rabbia dando pugni e/o calciando sul materasso liberamente. E’ sempre molto importante che abbia chiaro l’oggetto intenzionale verso cui sperimenta le proprie emozioni e che usi la voce nella modalità che riterrà più opportuna nel rivolgersi a lui. Naturalmente lo si può sempre aiutare con il “doppiaggio” che può essere fatto, ricordo, sia con il suono che con il movimento. In questo caso si parlerebbe all’oggetto al posto del paziente trovando e poi verificando alcune frasi e un’intensità di espressione che vada bene per il paziente. Allo stesso modo si procederà con il movimento per esempio stringendo il pugno del paziente aiutandolo a muoverlo su e giù nel materasso. Quando l’espressione della rabbia si apre il movimento spesso può risultare molto coordinato e alternato tra pugni, piedi, voce e movimenti della testa che si
muove da destra a sinistra. Se la rabbia non esce o ha molta difficoltà ad esprimersi è possibile provocarla un po’, dopo aver chiesto il permesso al paziente, esercitando delle piccole pressioni con le dita su alcuni punti del volto ove spesso sono cronicizzate dai tempi più remoti della sua vita alcune tensioni. Quando si preme in questi punti è frequente sentire un po’ di male non solo per la pressione in sé che è poca cosa ma piuttosto per la resistenza muscolare. Il volto nei primi mesi di vita è la parte più differenziata del corpo del bambino perché è quella che è maggiormente in relazione con il mondo e il suo apparato muscolare è più sviluppato ed articolato del resto del corpo. La prima gestalt percettiva è quella tra i due volti della madre e del bambino.
Nella mascella e in modo particolare nel punto di unione tra mascella e mandibola c’è spesso molta tensione. Si può fare una pressione con gli indici o i pollici tra le guance per qualche secondo invitando il paziente a lasciar uscire un suono e poi rilasciare per un po’. Questa pressione spesso fa uscire una forte rabbia ed è opportuno cercare di metterla immediatamente in connessione con eventi vissuti e trattenuti dentro di sé. In generale questa tecnica va bene quando il paziente è abituato a lavorare con sentimenti forti, magari nella fase mediana della terapia.
Lavorando in questa area tra mascella e mandibola può frequentemente accadere che si possa aprire di più anche il bacino. In questo caso si può aiutarne il movimento chiedendo al paziente di afferrare le proprie caviglie e spingendo la sua zona lombare verso l’alto. L’azione dello spingere il bacino in avanti ha un significato molto affermativo, è come se si prendesse la decisione di cacciare via qualcuno. Durante la crescita si sono accumulate in questa zona molte paure di tipo sessuale e/o di essere feriti nelle zone vulnerabili.
L’instaurazione della contrazione è stato un modo che il
bambino ha usato per proteggersi nella zona inferiore. Quando pertanto il bacino sale questo è come un segno di forza, di esibizione della propria sicurezza. Questa tecnica sul bacino si può utilizzare oltre che per la rabbia anche per affermare il proprio diritto al piacere. In questo caso rappresenta quasi una specie di sfida nei confronti di tutti coloro che hanno cercato di inibirne la sua manifestazione.
Un altro modo per far uscire la rabbia è quello di premere con buona forza sulla mandibola e di chiedere al paziente di cercare di mordere la mano, magari invitandolo ad emettere dei suoni simili al ringhiare del cane. Si cerca di esaltare la sua ferocia ed è anche importante invitarlo a tenere gli occhi ben aperti e a far salire la rabbia anche su di essi, come accade appunto nei cani che quando sono molto arrabbiati hanno gli occhi che sembrano “iniettati di sangue”.
Infine un’ultima tecnica che uso frequentemente è quella di premere o con gli indici o con le nocche un po’ sopra l’arcata sopraccigliare dal centro verso l’esterno. Questa è spesso una zona molto contratta in modo particolare per mantenere stabile nei rapporti interpersonali l’atteggiamento di “ far finta di star bene ” come è spesso richiesto dalle convenienze sociali. Si fa per due o tre volte.
Naturalmente se il paziente si manifesta con uno stato negativo come la rabbia o anche come vedremo in seguito come la paura, si deve comunque essere sempre pronti alla possibilità di un cambiamento
repentino ad un’altra condizione che può essere sia di tristezza che anche positiva come una risata o uno stato di allegria. In questo caso bisogna sostenere quest’ultima condizione senza rimanere attaccati alla precedente e lasciare semplicemente che succeda. Dentro di sé il terapeuta deve solo compiere un’operazione di tipo cognitivo e cioè notare ciò che accade e registrare nella mente tutte queste informazioni. Le considerazioni che vanno fatte saranno del tipo: cosa si sta imparando di più dell’infanzia del paziente? Quali informazioni abbiamo avuto dal suo comportamento? Sono nuove o le avevamo già?
Il lavoro con la tristezza
Nel fare il lavoro con il corpo non bisogna avere fretta. Dare pugni e calci con la rabbia o piangere quando si è nella tristezza, tutto questo va quasi sempre in modo lento. Non si deve avere né dare l'idea che la vera terapia è quando si esprimono le emozioni; questa è una visione orientata alla catarsi ma in realtà tali esperienze sono solo una piccola parte della terapia e avverranno, se anche fosse necessario che si manifestino, al momento opportuno. Molti andranno piano e sarà più
importante per loro che riescano ad integrare qualche elemento, se pur piccolo, della propria esperienza passata nel momento presente. L'espressione più importante di un cambiamento che ci possiamo aspettare è che si verifichi una modifica dello schema corporeo del paziente, ovvero che si realizzi in lui un modo diverso, seppur piccolo, del suo modo di essere nel mondo.
Nell'espressione degli impulsi c'è sempre un punto di apice in cui ci si ferma e alla fine dei conti ci si può accorgere che la propria rabbia o pianto non sono così pericolosi. Naturalmente ciò non significa che l’esperienza non possa essere difficilmente sopportabile per qualcuno. In questo caso, quando un paziente entra in un sentimento troppo forte semplicemente lo si ferma. Gli si chiede di guardarci negli occhi e si parla con lui creando un po’ di contatto per due o tre minuti.
Come ho detto dei molti sintomi che si possono manifestare, se guardiamo più in profondità si può osservare che spesso questi sono sovradeterminati, ovvero che esistono molte cause che convergono alla loro formazione. Una parte di queste cause sono dette pre-edipiche (almeno riferendosi agli schemi evolutivi psicoanalitici) mentre altre sono dette edipiche. Per esempio nella formazione di una perversione in genere si pensa che ci sia qualcosa nella vita del paziente che è successa dopo la fase edipica (dai tre anni in su), mentre invece il segreto sta nel raggiungere il periodo pre-edipico che è quasi sempre più importante nella genesi delle cause.
Anche con la tristezza vale lo stesso discorso. In apparenza può avere a che fare con cause recenti o anche non troppo remote ma spesso se vi è l’opportunità di esplorare e di indurre una regressione a momenti più antichi possiamo ritrovarne la vera origine nel lontano passato.
La tristezza va ovviamente vissuta e non evitata. E’ necessario invitare il paziente a rimanerci dentro almeno per un po’ e osservarne lo scenario. Un senso di solitudine, di isolamento, debolezza e malinconia ha spesso a che fare con un legame materno vissuto negativamente e vi è sempre molta difficoltà in questi casi a mostrare le proprie ferite.
Un amore per la madre vissuto conflittualmente in generale può far insorgere nel bambino più spesso sentimenti di tristezza che di rabbia. Infatti nel lavoro con il corpo molto frequentemente dopo una prima manifestazione della rabbia emerge spesso la sua controparte che è la tristezza.
Come ha ben descritto la Klein dai 5 mesi in poi la posizione schizoparanoide originaria del bambino viene sostituita da meccanismi depressivi ( posizione depressiva ) attraverso i quali egli impara a limitare la propria aggressività per non perdere la relazione d'amore con la madre.
La tristezza infatti può anche essere la conseguenza del distacco da una figura idealizzata quando si è pronti per attuarlo. Dice Kohut, " Un vero disinvestimento del Sé può essere ottenuto soltanto da un lo integro e funzionale; ed è accompagnato da tristezza quando la carica energetica è trasferita dal diletto Sé sugli ideali sovra individuali e sul mondo con cui ci si identifica "10.
In altre parole la tristezza in questo caso risulterebbe essere la conseguenza della rinuncia alle aspettative infantili di unione con l’oggetto anelato: “ come sarebbe potuto essere solo se … ”, il superamento quindi dell’identificazione con quella parte di sé che continua a desiderare che prima o poi “ il sogno si realizzerà perché la madre capirà… ecc. ”, la qualcosa a lungo termine produce solo un impoverimento della vita psichica con una caduta di energia e di entusiasmo per il vivere quotidiano in generale e in modo particolare per le distrazioni ed i piaceri. Se questa tristezza non si dovesse superare o attenuare diverrebbe invece depressione che in sostanza esprimerebbe sia uno stato di tristezza e di passività che anche una forte rabbia.
Per superare questa condizione il paziente dovrà pertanto accettare e sperimentare le antiche emozioni di perdita provate ed elaborare definitivamente quel lutto del suo desiderio per poter procedere finalmente oltre le sue antiche aspettative. Dovrà metaforicamente “ girare le spalle ” al suo forte attaccamento e procedere da solo verso la vita scoprendo di avere le risorse per poterlo fare. In generale il modo di lavorare con il corpo è sempre quello di invitare il paziente a prendere contatto con il suo vissuto e a esplorarlo per mezzo dei passi di transizione: “ … si può dire al paziente di rimanere in contatto con questa emozione e di lasciarsi venire in mente delle parole in associazione. Potrebbe essere che vengano parole tipo: "mi manca tanto", oppure " mi sento solo"
10H. Kohut, “La ricerca del Sé”, Boringhieri, Torino, 2000
o qualunque altra cosa. Il passo successivo allora è quello di esplorare ciò che queste parole significano per lui. Le parole possono essere un ponte per avvicinarsi di più al suo tema. Se non vengono delle parole, si può chiedere al paziente di rimanere in contatto con la sua tristezza e di lasciarsi venire in mente delle immagini. Per esempio può venirgli in mente la sua casa o delle persone. In questo caso si esplora maggiormente:"rimani in questa casa e vedi cosa sta succedendo. Com'è esseri lì?" e così via. Si usano tutti i possibili segnali e li si amplifica. Se questi primi due "passi" non funzionano si può chiedere al paziente di fare un gesto o un movimento e questo può produrre altre associazioni. Infine, un altro aiuto viene dall'emissione di un suono. Si può dire al paziente: "stai con la tristezza ed emetti un suono che esca fuori da questa emozione". Il suono può aiutare a chiarire la natura e la qualità dell'emozione” 11 .
Una situazione speciale è quando il bambino perde una figura importante come la madre o il padre. Può facilmente accadere che il bambino interiorizzi dentro di sé l'immagine di questa persona perduta così preziosa e importante per lui come fosse un tesoro segreto che vive come un aiuto dall’alto di cui sente di non poter fare a meno, idealizzandola. Magari può aver immaginato, o possono averglielo fatto credere, che il defunto è in cielo e che da lassù lo vede, lo capisce e lo aiuta. E' importante comprendere come si è strutturata questa immagine nella mente del bambino perché è stata certamente una esperienza molto importante per lui in quel tempo in cui molto probabilmente c’è stata la tendenza e il bisogno di credere che la persona che è venuta a mancare sarebbe ritornata. La simbiosi è infatti una estrema difesa dall’esperienza di separazione/morte quando ancora non si sono sviluppate le risorse per evolvere verso la differenziazione dall’oggetto primario.
Quando emerge la tristezza che per esempio si manifesta con il pianto, dopo un po’, e in modo particolare se la situazione tende ad essere molto intensa e drammatica, si può prendere la mano del paziente e anche eventualmente girare il suo corpo in un fianco, in posizione fetale e fare contatto con un abbraccio. In genere non c'è bisogno di fare di più.
Se al contrario il paziente non piange ma sperimenta comunque tristezza, possiamo dare il messaggio che continueremo a lavorare sul respiro per poter entrare un po’ di più nella sua emozione; potremo
dire:" Rimani con la tristezza… se piangi è o.k., se non piangi è o.k.". Alle volte può essere necessario rimanere con il paziente in silenzio empatico per un po’ di tempo. Il più delle volte questo può aiutare ad attraversare la “solennità” della sua esperienza.
Una buona tecnica è anche dire: " Stai con la tristezza e continua con la respirazione ... emetti un suono e cerca di collegare questo suono con la tristezza ”, oppure si può continuare ad aiutare a favorire l'espirazione con una maggiore pressione sul torace. Infatti molte persone cercano di controllare il proprio petto per non far venire fuori la tristezza. In questo caso si può mettere sia una mano sul torace che una sulla testa.
Il lavoro con la paura
Bion diceva che “ quando ci si accosta all’inconscio è inevitabile, tanto per il paziente che per l’analista, essere turbati ” e aggiunge poi che “ in ogni studio di analista dovrebbero esserci due persone piuttosto spaventate: il paziente e lo psicoanalista. Se non sono spaventati, c’è da domandarsi perché si prendono il disturbo di scoprire quello che tutti sanno ”12.
Questa premessa sottolinea la necessità che quando si manifesta la paura, nel Body Work è necessario andare più cauti che con le altre emozioni. Si è in un terreno più difficile e spesso ci si può perdere. La paura è una emozione egodistonica (che allontana dal proprio centro) a differenza
11 S. Mazzei, “ Principi della Body Psycotherapy: tra terapia della Gestalt e teoria delle relazioni oggettuali “, Rivista “Qui e Ora” n. 1, Mazzei Editore, Cagliari,1992
12 Bion W.R., “Il cambiamento catastrofico”, Loesher, Torino 1981.
della rabbia e della tristezza che sono prevalentemente egosintoniche , cioè che hanno la proprietà di farci sentire maggiormente interi, più coesi.
Le emozioni sono innate, universali e hanno basi biologiche. Stroufe13 sostiene che solo
dagli 8 mesi in su si potrebbe presentare l’esperienza della paura nella psiche del bambino, in quanto le emozioni si strutturano successivamente ai loro precursori del piacere e della frustrazione che evolvono dalle nascita sino ai tre/cinque mesi di vita per divenire solo dopo emozioni vere e proprie come la gioia, la rabbia, ecc.
Attraverso l’apertura del respiro si possono presentare molti tipi di paura e molte di queste possono essere collegate con quelle più arcaiche. Tra le più comuni c’è la paura di impazzire, la paura di aver paura , di essere sommersi, che si crolli, che si collassi, della propria rabbia, della punizione, del giudizio, della vergogna, ecc., e certo anche per il terapeuta non è tanto facile avere a che fare e trattare queste esperienze. Infatti è difficile stabilire un vero contatto empatico con il paziente se l’approccio è di natura cognitiva piuttosto che esperienziale. Bisogna rendersi conto della difficoltà ed essere davvero vicino intimamente al paziente quando si immerge in questi stati di coscienza.
Winnicott ha descritto cinque stati particolarmente angosciosi da lui chiamati “ agonie primitive ” 14 ove la paura è connessa con i cosiddetti “ eventi primitivi impensabili ”, che si sono dovuti rimuovere dalla consapevolezza nel momento in cui si sono manifestati nell’infanzia in quanto considerati insostenibili. In realtà si continua ad avere questa coscienza nel fondo di se stessi anche nella vita adulta e succede spesso che si abbia paura che il sistema difensivo possa “ crollare ”
facendo fuoriuscire questo materiale angoscioso da cui si potrebbe venire sommersi .
Molti degli stati angosciosi primitivi elencati da Winnicott sono molto simili nella sostanza dell’esperienza alle “ fantasie e angosce persecutorie ” della Klein e al “ terrore presimbolico ” di Kohut.
Per la Klein , “ lo spaventoso impatto di figure persecutorie nella fantasia del bambino come quelle dell’essere distrutto, mangiato, fatto a pezzi, disintegrato… esprime e manifesta l’istinto di morte, quella terrificante esperienza ove il bambino cerca continuamente di espellere dal suo interno il bombardamento di questi elementi disgreganti ma che non sarebbe in grado di reggere senza l’Io ausiliario della madre” … e per Kohut invece il terrore presimbolico ”…si sperimenta come perdita del senso della realtà. Si perde la percezione di sé e dell’altro. Non si ha più un centro. E’ come se tutto svanisse o si alterasse. Non vi sono più punti di riferimento. Manca il terreno sotto i piedi. Non si sa più chi si è o chi sono gli altri. Ci si sente senza alcuna protezione. Non si sa come o dove stare. Ci si sente dentro un’infinita scomodità. Si cade in un abisso di paura. Ci si
smarrisce .” 15
Gli stati angosciosi di cui parla Winnicott sono:
• Il ritorno a uno stato non-integrato . E’ la paura della disintegrazione , cioè di una condizione di frammentazione interna che toglie il senso della propria interezza. Nel lavoro terapeutico ci si può sentire spezzati, scissi, divisi in diverse parti. E’ la paura della psicosi.
• Cadere per sempre . E’ la paura del crollo psicologico e di cadere, cadere, cadere in un abisso senza fine da cui si viene inghiottiti . E’ analogo al venir divorati.
• Perdita dell’unione psicosomatica . Vissuta nel Body Work è sostanzialmente la paura che il corpo non regga, che la pressione interna salga troppo e si scoppi , che possa venire un infarto o un ictus, e in fondo è la paura di morire.
• Perdita del senso di realtà . La paura di perdersi, della confusione, di non capire più nulla e di non sapere più chi si è (terrore presimbolico).
13 Sroufe L. A. “Lo Sviluppo delle Emozioni. I primi anni di vita”, Raffaello Cortina Edizioni, Milano, 2000
14 Winnicott D.W. “ La paura del crollo”. In “ Esplorazioni psicoanalitiche ”. Milano, Cortina, 1995
15 Mazzei S., “ Ti vedo, ti sento, ti accompagno. In cerca di risposte nell’esserci empatico ”. Rivista “IN Formazione Psicoterapia-Counselling- Fenomenologia” n°16 , Giugno/Dicembre 2010, I.G.F. s.r.l. Editore, Roma.
• Perdita della capacità di mettersi in relazione agli oggetti . Il mondo diventa un incubo, si ha paura di essere sopraffatti e si sente il bisogno di fuggire sino in casi estremi al ritiro autistico o alla catatonia.
Tutte queste sono paure molto profonde che possono influenzare anche quelle più superficiali ma ovviamente in questi casi si tratta di condizioni estreme e naturalmente quanto si manifesta nel lavoro con il corpo ha generalmente caratteristiche molto più lievi. Comunque durante la regressione del lavoro sul corpo, quando e se dovesse emergere la paura, bisogna sempre chiedere al paziente se gli va di esplorarla per un po’, ben sapendo ovvero informandolo che può interrompere il processo in un attimo quando egli lo volesse. Se il paziente accetta allora si può procedere nel tentativo di contestualizzarla ed è bene ricordare che in generale con la paura è sempre meglio che il paziente tenga gli occhi aperti. Gli si possono fare delle domande del tipo: “ Dove ti trovi? … chi c’è con te ?… sei solo?... cosa sta succedendo? quanti anni hai? …, ecc. ”.
Si va in “ immersione ” e si cerca di esplorare la circostanza con la quale è collegata la paura.
Può essere molto utile se il paziente riesce ad emettere un suono, forte quanto la sua paura, lasciandolo uscire e dirigendolo verso l’alto. In genere la paura della paura blocca il suono e pertanto se questo viene espresso significa che la paura diminuisce e si sente maggiore sicurezza.
Una buona tecnica, simile a quella dell’ esagerazione del sintomo gestaltica, è quella di chiedere al paziente di aprire i suoi occhi più che può o addirittura di spalancarglieli con le nostre dita chiedendogli di immaginare di aumentare il più possibile la sua paura e di mandarla fuori con un suono, un urlo di terrore, verso il soffitto e oltre fino ai confini dell’universo. Lo si fa per qualche secondo e per diverse volte. Se il paziente riesce ad aumentare la sua paura egli diviene paradossalmente anche in grado di ridurla e quindi di gestirla.
Un’altra tecnica per aumentare la paura è quella di chiedergli di muovere gli occhi a 8 rovesciato, come il simbolo matematico
per infinito, spingendo ai lati delle orbite oculari la vista senza muovere la testa. Dopo che farà questo per qualche minuto gli si potrà dire di fermarsi e di prestare attenzione a ciò che sperimenta e gli si chiederà, se vorrà, di parlarcene. Questa tecnica fa crescere la paura che comunque una volta espressa e “ urlata ” può decisamente essere meglio integrata. Il movimento con gli occhi è un modo con il quale si
possono toccare molte emozioni. Il terapeuta durante queste fasi dell’esperienza dovrà cercare di favorire l’espirazione facendo pressioni sul torace e lavorare con le mani sulla testa e sul collo per sostenere empaticamente il vissuto del paziente.
Queste tecniche hanno il potere di ridurre di molto le tensioni dell’angoscia e possono produrre un'esperienza molto liberatoria per il paziente che potrà avere la sensazione di aver contattato, e in molti casi sciolto, una paura molto profonda; d’altra parte può spesso accadere che i sentimenti possono essere molto forti e difficili da tollerare.
Un’altra tecnica che può essere utile per dare al paziente un senso di protezione dall’impatto
dell’angoscia è quella di chiedergli di mettere le sue mani in avanti e all’insù, nella posizione di chi vuole difendersi da qualcosa di minaccioso, che è anche un tipico riflesso del bambino.
Il lavoro con il piacere
La gioia e il piacere si manifestano frequentemente nel processo corporeo al contrario delle emozioni sessuali che invece sono più rare. Spesso si confondono in quanto in certe circostanze sembra che i movimenti che emergono siano di natura erotica ma in realtà si tratta prevalentemente di atti affermativi al diritto di provare piacere. Questo tipo di bisogni dell’espressività corporea provengono probabilmente dal periodo della differenziazione dalla madre, nella fase in cui il bambino esce dalla simbiosi e comincia a esplorare il mondo nelle cose che ci sono intorno a lui. E’ il piacere del sentirsi vivo, del sentirsi forte, del proprio corpo e c’è tutta una nuova scoperta delle
proprie potenzialità motorie. Mahler16 nel suo studio dei processi evolutivi dei primi tre anni di vita
descrive sei tipi di interazione tra madre e bambino: sostiene che nella fase della " differenziazione " e della " sperimentazione ", che va dai 6 ai 12 mesi, il bambino diventa molto attivo ed esplora molti nuovi movimenti possibili che il suo corpo è in grado di fare, e in modo particolare nello stadio della differenziazione, quando cioè si alza in piedi e diviene in grado di sostenersi con le sue gambe, sperimenta la sensazione di un grande potere del corpo, la sua autonomia: ” Nel lavoro col il corpo, quando il paziente sta sperimentando un rivivere questa fase, chiede distanza, vuole fare le cose da solo e non vuole che il terapeuta l'aiuti, vuole appunto "sperimentare" Può succedere in diversi modi. Per esempio muove le mani o il corpo. Vuole semplicemente muoversi come se stesse esplorando le sue possibilità. Non è che voglia che il terapeuta se ne vada, ma vuole distanza, uno spazio personale. Il comportamento adeguato è stare abbastanza distanti dando comunque il messaggio di esserci. Non bisogna intervenire eccessivamente né dare messaggi svalutativi o punitivi ”.17
Oltre a ciò il piacere è anche collegato al superamento delle croniche autointerruzioni di cui il paziente è stato oggetto nel corso del suo lungo apprendistato di adattamento alle richieste parentali ed ambientali. Una infinita serie di raccomandazioni e ingiunzioni del tipo: “Non ti muovere, stai seduto, non fare questo, non fare quello, stai composto, non aprire le gambe, smettila di correre, non esistere …” hanno strutturato in lui un complesso di contrazioni e tensioni che ora incominciano a sciogliersi. In sostanza il piacere e la gioia sono l’emozione del sentirsi finalmente liberi di muoversi, correre, saltare, fare le capriole, di lasciarsi andare al movimento libero e spontaneo, ecc. e molto spesso un naturale proseguimento del Body Work può essere proprio quello di proporre al paziente, specie se si trova in un contesto di terapia di gruppo, di provare a fare tutto ciò che gli viene di fare, come andare in giro, toccare le persone, ballare, baciare, dare pizzicotti, fare il solletico, saltare, giocare. E’ un’esplosione di gioia.
SCHEMA CORPOREO E RESISTENZE
In definitiva lo scopo implicito del Body Work è quello di aiutare il paziente a rendersi conto del suo sistema di adattamento alla vita e della struttura, della forma ( gestalt ) del suo schema corporeo quale compromesso tra la sua esperienza intrapsichica e la sua modalità di rapporto interpersonale o in altre parole di come egli ha organizzato le sue resistenze nel confine del contatto .
Nel suo scritto “ L’Io, la fame e l’aggressività ”18 Perls scriveva che noi tendiamo a evitare il
contatto auto-interrompendoci continuamente attraverso svariate modalità di resistenza tra cui:
16 Mahler M., Pine F., Bergman A., “ La nascita psicologica del bambino – Simbiosi e Individuazione ”, Boringhieri, Torino, 1978
17 Mazzei S., “ Principi della Body Psycotherapy: tra terapia della Gestalt e teoria delle relazioni oggettuali “, Rivista “Qui e Ora” n. 1, Mazzei Editore, Cagliari,1992
18 Perls F. S: “L'io, la fame e l'aggressività”, Franco Angeli, Milano 1995
•Scotoma
•Selettività
•Inibizione
•Repressione
•Fuga
•Sovra compensazione
•Corazza
•Ossessioni
•Proiezione permanente
•Allucinazioni
•Proteste
•Cattiva coordinazione
•Spostamento
•Sublimazione
•Tratti del carattere
•Sintomi
•Sensi di colpa e ansia
•Proiezione
•Fissazione
•Indecisione
•Retroflessione
Questi sono i sintomi e le resistenze al contatto più frequenti che si manifestano nel corso della terapia ai quali si cerca di trovare una nuova e più funzionale risposta .
Quando entra nel cosiddetto “ stato alterato di coscienza ” che deriva dall’apertura del respiro con evidentemente un maggior afflusso di ossigeno nella corteccia cerebrale, e che poi, in fin dei conti, esprime in realtà lo “ stato normale di coscienza ” che ci sarebbe stato se avesse potuto respirare naturalmente senza tutti gli intoppi della sua crescita, allora, in quel momento l’individuo riesce a sentire e comprendere la sua potenzialità di poter essere un uomo libero, intero e non frammentato, e finalmente se stesso, o almeno con la prospettiva di avere una strada possibile da percorrere affinché, prima o poi, questo possa avvenire nel realizzare ciò che semplicemente egli è.