Base Teorica

Base Teorica

Se la sessualità è il fuoco che inizia ed alimenta la coppia, la responsabilità è l’elemento strutturale che fa diventare la coppia uno dei pilastri delle società in tutte le epoche. L’inserire in forma stabile il partner nella nostra vita di individuo, il tener conto di lui/lei nell’operare scelte e sviluppare progetti, accettare la sua importanza per poter vivere il bisogno di paternità/maternità, porta a potenziare la capacità di assumermi responsabilità: sia nella sua eccezione di abilità di dare risposte (respons – abilty) alle opportunità e difficoltà che incontriamo nel vivere sociale, che nell’accezione di abilità di caricarci di pesi (res – pondus – ability).

Sessualità e responsabilità hanno però caratteristiche molto diverse che li rendono facilmente conflittuali e come sempre, quando due forze generano conflitti, generano anche grandi potenzialità di sviluppi. La coppia ha a disposizione molteplici armi distruttive: indifferenza, insofferenza, noia, ripetizioni compulsive, sarcasmo, giochi di potere, compiacenza, dispetti, formalità, abitudini, etc.

La maggior parte delle coppie che iniziano un percorso di terapia o di counseling, lo fanno per ragioni diverse legate a due ordini di questione: sofferenza legata alla sessualità o legata alla responsabilità. Nella prima rientra la mancanza di desiderio sessuale, varie insoddisfazioni legate a disturbi della sessualità (eiaculazione precoce, impotenza orgasmica e/o erettile, vaginismo etc.), sessualità vissuta al di fuori della coppia, ecc. Nella seconda rientrano situazioni conflittuali quali: il partner non guadagna abbastanza, non è presente nella cura dei figli, dedica troppo tempo ai suoi interessi, manca una progettualità di coppia, etc.

Tutti i percorsi di terapia o counseling di coppia affrontano queste sofferenze ed aiutano le coppie a scoprire se hanno le risorse per affrontare cambiamenti e sviluppare nuovi modi di stare insieme, risolvendo e chiudendo storie del passato, sia individuale che di coppia, che interferiscono con lo sviluppo di cui la coppia ha bisogno, oppure ad accettare che quella coppia ha esaurito le sue potenzialità creatrici ed è ora per gli individui di separarsi.

Per le coppie che trovano il modo di continuare a crescere insieme, si sviluppa però una consapevolezza spiacevole: i problemi, i conflitti, le incomprensioni e le sofferenze, ci saranno sempre. Le crisi non avranno mai fine e la coppia deve imparare ad identificarsi con la prossima soluzione emergente se non vuole entrare in una depressione nichilista: “Siamo sempre allo stesso punto”. “Nonostante tutto quello che abbiamo fatto, stiamo ancora male”.

A questo punto però si rischia di entrare in un limite o un paradosso del percorso di crescita: finchè sono un paziente o un cliente, sono identificato col problema. Il fatto stesso che mi definisca tale vuol dire che sono in un problema, in una difficoltà. Colui/lei che si identifica con la soluzione è il/la terapeuta, e questo è uno dei motivi per cui viene idealizzato/a. Questo processo non cambia nei percorsi di coppia.

Identificarsi con la soluzione vuol dire riuscire ad alienarsi dal coinvolgimento emotivo col problema.

O meglio, il coinvolgimento resta con la sua carica emotiva (passione, sofferenza, depressione), ma i partner non saranno più interessati alla spiegazione, alle cause, alle motivazioni, o a difendere le proprie posizioni.

Il terapeuta o il counselor sviluppa ciò che Paul Goodman, filosofo anarchico degli anni 50/70 e co-fondatore della Psicoterapia della Gestalt, definiva “indifferenza partecipativa”: non mi interessa perché soffri, ma come costruisci la tua sofferenza.

Nel far questo non ci identifichiamo col problema: “soffro perché lui/lei mi trascura”, ma con la soluzione: “A cosa mi sta servendo la sofferenza che sto vivendo? Dove mi sta portando? Come la sto alimentando?”.

Impariamo così ad uscire dal conflitto di potere e dalla reattività per interessarci ai vissuti (in particolare le paure nostre e de partner) nelle reciproche differenze.

In questa ottica, affrontare una formazione per imparare a lavorare come coppia di terapeuti o di counselor, è principalmente un modo di continuare il proprio processo di crescita personale e di coppia, che però si basa sull’acquisizione degli strumenti che permettono, per il tempo della sessione, di stare dall’altra parte, allenandoci ad entrare ed uscire dai problemi.

Con questa formazione ci alleniamo a praticare la visione gestaltica nella coppia identificandoci con le soluzioni.

Acquisire competenze di counselling di coppia può servire per sostenere altre coppie imparando ad osservare le dinamiche e accompagnandole nel trovare soluzioni evolutive per la situazione che sta attraversando.
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Autore: Sergio Mazzei 22 giu, 2018
Ho cominciato ad applicare la tecnica della Body Psycotherapy, che ho appreso attraverso un percorso di formazione intrapreso negli anni ‘80 con George Downing.
Autore: Barbara Bellini 27 set, 2017
Il termine “ansia” genera in chiunque una reazione di rifiuto o paura. Specialmente in ambito lavorativo, per dirigenti manager e responsabili, la gestione dell’ansia rappresenta spesso un “problema” da affrontare con sedute di training autogeno, se non con l’uso dei farmaci. Ma cos’è l’ansia e perché ci spaventa così tanto? Come evento psicologico l’ansia è uno stato d’animo che sorge in noi quando perdiamo il contatto con la situazione presente e ci proiettiamo in un situazione futura che viviamo come minacciosa e che sperimentiamo come se fosse presente in questo momento. Il fatto che la situazione non sia presente fa sì che non si possa fare niente di efficace e questo alimenta in noi il senso di inadeguatezza e di tragedia incombente. Ognuno di noi ha sperimentato l’ansia prima di un esame, prima di un incontro di lavoro importante, prima di parlare in pubblico, o comunque prima di qualsiasi evento carico di aspettative. L’accento sul prima ci rivela come l’ansia non sia mai presente nel momento del coinvolgimento nell’azione per noi importante, ma in un tempo che precede questo coinvolgimento : un tempo in cui dobbiamo trattenere e contenere l’eccitazione pronta per l’azione. Sotto il profilo fisico, l’ansia presenta le caratteristiche di un’eccitazione trattenuta: · respiriamo poco e solo nella parte alta dei polmoni · la gola è chiusa · il diaframma è contratto · spesso spalle e stomaco sono contratti · siamo agitati senza la capacità di concentrarci su qualcosa E’ evidente che stiamo parlando di sintomi spiacevoli e questi da soli potrebbero spiegare la scarsa popolarità di cui gode l’ansia …. ma non è così. Ciò che rende l’ansia così “ansiogena” è il senso di inadeguatezza ad affrontare una tragedia imminente. Ma ciò è una conseguenza di una nostra errata interpretazione dell’emozione e dello stato di agitazione. Così, invece che accoglierli come segnali della nostra volontà di coinvolgimento e dell’eccitazione che abbiamo a disposizione per l’azione, li interpretiamo come segnali di inadeguatezza e facciamo di tutto per scacciarli e controllarli ottenendo così l’effetto di aumentarne l’intensità. C’è da aggiungere il senso di vergogna che spesso proviamo nel mostrarci agitati ed eccitati davanti agli altri, altro fattore che spinge ad aumentare il controllo e a vivere negativamente l’ansia. L’ansia dovrebbe naturalmente dissolversi nel momento in cui noi ci coinvolgiamo nell’azione attesa trasformandosi in eccitazione, ma se il controllo è stato molto rigido e le contrazioni muscolari e respiratorie molto accentuate, allora non si trasforma in eccitazione ma in panico , con il conseguente risultato della paralisi, che è la naturale risposta di un organismo di fronte ad un aminaccia molto grossa che ritiene di non essere in grado di affrontare in alcun modo, neanche con la fuga. Perché l’ansia può essere uno strumento importante. L’ansia ci segnale in realtà che siamo pronti per l’azione, ma che dobbiamo contenere la nostra eccitazione perché non è ancora il momento di lasciarla andare. E’ una forma di riscaldamento del motore che, se svolto nel modo più appropriato, renderà la vostra azione ancora più efficace. Lo sanno bene i grandi attori che salutano l’ansia da palcoscenico come un segnale che sentono l’avvenimento e sono pronti ad una grande performance. E al contrario si preoccupano molto se prima di entrare in scena si sentono calmi e distaccati: sanno bene che questo stato d’animo potrà produrre prestazioni vuote e prive di coinvolgimento. Il punto, dunque, non è cercare di eliminare l’ansia, ma viverla, contenerla ed utilizzarla in modo efficace . Come fare? · Ridefinire l’ansia. E’ necessario modificare il nostro atteggiamento mentale. Accogliere l’ansia come un segnale positivo del nostro preparaci all’azione. · Evitare di fantasticare sull’evento futuro. Meglio parlarne con qualcuno · Agire sui sintomi fisici. Espirare il più completamente possibile. Fisicamente l’ansia è la conseguenza del senso di soffocamento derivante da mancanza di ossigeno Respirare più profondamente e nella pancia. In questo modo allentiamo la tensione diaframmatica che rende più difficile l’espirazione Usare la voce. Magari per cantare o parlare con qualcuno, così da allentare la tensione alla gola Accettare la nostra agitazione. Non vergogniamoci di essere agitati. Vuol dire che siamo umani e ci teniamo a ciò che stiamo per fare. Se possibile, fare esercizio fisico. Non per scaricare la nostra agitazione, ma per fare circolare l’energia nel nostro organismo e darci un piacevole senso di essere pronti per l’azione · Fare esercizi di concentrazione spontanea. Così da portare l’attenzione sul qui e ora. · Avere fede nel processo . Questo è sempre un elemento fondamentale: stanno avvenendo le cose che devono avvenire, e quando sarà il momento faremo tutto ciò che sarà necessario fare
Autore: Mariano Pizzimenti 27 set, 2017
“(…..) Qualsiasi disturbo della sfera sessuale sarà affrontato in termini relazionali. Non voglio dire che non esistano disturbi sessuali dipendenti da motivazioni fisiologiche individuali, ma nella mia esperienza l’incidenza di questi ultimi è molto bassa, rispetto al grande numero di disturbi sessuali legati a problematiche della coppia e/o del campo più allargato che include famiglie di origine ed esperienze infantili e adolescenziali. Detto in altri termini, i disturbi sessuali sono sempre l’espressione di una strategia di sopravvivenza che trae la sua efficacia proprio da quel comportamento che noi chiamiamo “sintomo”. Nella terapia della Gestalt noi diciamo che non esistono disturbi, ma solo “stimoli”. Che cosa vuol dire? Col termine disturbo diamo un valore negativo ad un evento che ci distoglie da un nostro compito. Il disturbo può essere un ostacolo o, al contrario, uno stimolo che, facendo emergere il conflitto tra due intenzionalità (originaria e succedanea), rappresenta un segnale utile per orientarci e far emergere l’intenzionalità originaria. Dunque è un ostacolo per l’intenzionalità succedanea, mentre è un’“occasione” per quella originaria. Un esempio. Se io ho scelto una facoltà che non mi piace solo per accontentare i genitori (intenzionalità succedanea) e sto preparando un esame che non mi interessa, un cane che abbaia ad un chilometro di distanza, sarà un disturbo insostenibile. In questo caso l’intenzionalità originaria è quella di affermarmi di fronte ai miei genitori come persona adulta, autonoma e responsabile. Il cane disturba l’intenzionalità succedanea di relazionarmi con i miei genitori sulla base di introietti. Se invece sono coinvolto a scambiarmi effusioni con un mio amante, probabilmente non percepirò neanche una nota del concerto rock che sta avvenendo intorno a noi in quanto sono me stesso in maniera piena sul confine di contatto. Perls e Goodman (1951) parlavano di sintomi nei termini di “adattamenti creativi” perché se l’individuo non ha il sostegno per portare fino in fondo l’intenzionalità originaria, allora l’intenzionalità succedanea è la strategia creativa che trova, con il sostegno di cui in quel momento dispone, per espletare quella originaria. Questa strategia creativa è limitata, ma è comunque la migliore possibile in quel campo. Il disturbo sessuale ci dice quindi che un conflitto tra intenzionalità è attivo e, in questo momento, sta emergendo alla superficie. È quindi uno stimolo a riconoscere qual è l’intenzionalità originaria che io, o meglio, la coppia, sta negando”. Sull’impotenza erettile leggiamo: “Se comincio a pensare che il mio pene o la mia vagina hanno qualcosa che non va, che non funzionano , apparentemente mi assolvo, cioè mi separo da una parte di me che definisco disfunzionale, mentre “io” vorrei e continuo a desiderare ardentemente di avere un rapporto sessuale con l’altro. In questo modo però io mi autodefinisco impotente, in quanto non ho potere su una parte di me che sfugge al mio controllo ed agisce contro la volontà. Se invece ci assumiamo la responsabilità di rendere impossibile la penetrazione e accettiamo che, aldilà di quella che può essere la nostra percezione emotiva o cognitiva, noi stiamo esprimendo un rifiuto al contatto genitale con l’altro, ecco che torniamo ad essere “potenti”. La difficoltà sta nel fatto che non siamo consapevoli di questo rifiuto. Ci siamo alienati da esso e ne scarichiamo la difficoltà su una parte di noi, desensibilizzandoci. Facciamo come Muzio Scevola che brucia la sua mano sul braciere per punirla di aver accoltellato la persona sbagliata. La potenza comporta respons-abilità. Cioè la capacità di confrontarsi col partner e di sostenere il confronto. Ecco un primo dato relazionale, l’impotenza erettile o lubrificatoria, è sempre una deresponsabilizzazione rispetto ad una dinamica relazionale. È una strategia di sopravvivenza che si esplica attraverso il “vorrei, ma non posso”. Questo vuol dire vedere il fenomeno in tutta la sua estensione, che non è solamente la mancanza o perdita dell’erezione o della lubrificazione, ma il fatto che io prima sperimento ed esprimo il desiderio di avere il rapporto sessuale, vorrei averlo, ma poi subentrano delle paure specifiche e viene meno il coraggio. A quel punto mi sottraggo dal confine con l’altro, non vedo più lucidamente il mio compagno/a perché entro in contatto con parti di me inaccettabili; detto in altri termini: con la paura di far emergere i miei bisogni più profondi e di rimanere da solo. Nella mia strategia di sopravvivenza è più accettabile risultare inadeguato, che non “cattivo”, incapace, o rifiutante. “Non voglio” non è esprimibile, molto meglio “non posso””. Sull’eiaculazione precoce : “Secondo l’epistemologia di campo propria della Gestalt (Robine, 2006), ogni disturbo nasce nel qui e ora del contatto e riguarda ciò che gli individui, con la loro storia, stanno co-costruendo. Dunque se c’è un’ostilità, questa può essere collegata ad un’area di fragilità rispetto alla storia infantile, ma comunque nasce per qualcosa che sta succedendo tra i partner. La sofferenza è innanzitutto “relazionale”, prima ancora che individuale. Vediamo in che cosa questi fenomeni differiscono dall’impotenza. Sono entrambe forme d’ansia, che però sopraggiunge in momenti diversi. Qui non ci troviamo di fronte ad un rifiuto della penetrazione o della vaginazione, ma ad un’urgenza di conclusione. Nel caso dell’impotenza, l’esperienza è rifiutata in quanto pericolosa ed il pericolo è vissuto come immediato, presente nell’adesso della situazione che quindi viene evitata. Nell’eiaculazione precoce o nell’orgasmo precoce, invece, il pericolo sembra essere proiettato in un futuro più o meno prossimo e quindi dobbiamo abbreviare il più possibile i tempi per evitare che questo futuro si concretizzi. Dal punto di vista del ciclo di contatto, l’uomo sperimenta l’ansia nell’istante in cui raggiunge un livello elevato di eccitazione ed è proprio quest’ansia a creare una desensibilizzazione delle sensazioni genitali e quindi l’orgasmo involontario. Dunque, paradossalmente, la causa dell’eiaculazione precoce non è un’eccessiva sensibilità, come si ritiene comunemente, ma al contrario, una desensibilizzazione. L’ansia, in realtà, assume un ruolo indiretto nella genesi della precocità. Il punto è che la persona perde il contatto con i genitali e non percepisce molte delle sensazioni che preparano e conducono all’orgasmo. Oltre alla rapidità del riflesso eiaculatorio, la persona non è in grado di esercitare un controllo volontario sul riflesso stesso (Kaplan, 1976). Come per l’impotenza erettile e lubrificatoria, anche qui l’esperienza è vissuta differentemente dall’uomo e dalla donna (…..)”. Da “Aggressività e Sessualità. Il rapporto figura/sfondo tra dolore e piacere” Franco Angeli, 2015
Autore: Irene Tria 20 lug, 2017
La Scuola Gestalt di Torino nel 2012 ha deciso di coinvolgere Jgor Francesco Luceri e Alberto Bertotto, due psicoterapeuti che si erano formati presso l’Istituto, nell’organizzazione e conduzione delle attività di formazione indirizzate ai nuovi tirocinanti in psicologia. Per un paio di anni si erano avvicendati singoli tirocinanti che - per lo svolgimento delle loro attività curriculari – venivano inseriti nei gruppi di formazione rivolti a specializzandi psicoterapeuti (formazione quadriennale) o counselor (formazione triennale). Successivamente lo staff ha pensato di ampliare l’offerta per attrarre un numero maggiore di studenti e costituire un gruppo di studenti universitari più stabile ed omogeneo: l’obiettivo primario era quello di permettere ai tirocinanti di fare un’esperienza formativa all’interno di un contesto più sicuro con un gruppo di pari con esigenze simili. Il percorso era quindi finalizzato alla crescita personale attraverso esperienze guidate, la conduzione di colloqui di sostegno psicologico svolti sotto supervisione dei tutor e dei docenti della scuola, alternati a momenti di approfondimento teorico e pratico della Terapia della Gestalt e del modello formativo della Scuola Gestalt di Torino. Per supportare queste attività si è deciso di mantenere nel percorso dei tirocinanti la partecipazione ai seminari di formazione in psicoterapia e counseling in modo che potessero “immergersi” maggiormente nella realtà formativa dell’Istituto: ogni tirocinante veniva quindi inserito in un gruppo di studenti in formazione presso la scuola per tutta la durata del suo tirocinio, con il compito di redarre, di volta in volta, un report per ogni seminario seguito. La stesura di questa sorta di “diario” aveva come fine quello di permettere al tirocinante di “masticare e digerire” l’esperienza vissuta, ma anche di lasciare una traccia al gruppo in formazione di specializzandi psicoterapeuti o counselor del loro passaggio. I tirocinanti venivano inoltre coinvolti nell'organizzazione dei convegni e nelle attività di segreteria. Infine, una volta al mese, il gruppo tirocinanti incontrava alternativamente Mariano Pizzimenti, direttore e trainer della scuola, e Franco Gnudi, vicedirettore e trainer dei corsi di formazione in psicoterapia: durante questi incontri gli studenti avevano la possibilità di osservare il lavoro dei docenti durante vere e proprie sedute individuali che venivano svolte con un allievo del gruppo, disponibile a fare da “paziente modello”; ad ogni seduta seguiva un momento formativo di teoria e di analisi del processo della seduta nell’ottica della teoria della Terapia della Gestalt.
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